Solo 1 lavoratore su 10 è soddisfatto: serve una nuova “workplace culture”

6 dipendenti su 10 rifiutano il rientro in ufficio, 1 italiano su 2 ha cambiato lavoro o intende farlo: tutti i dati di una vera criticità di business

C'è una grande sfida che le aziende si trovano o si troveranno presto giocoforza ad affrontare, un vero e proprio elefante nella stanza che potrà essere ignorato ancora per poco. Stiamo parlando della necessità di implementare una workplace culture che risponda in modo più empatico ma anche strategico alle esigenze umane.
Chi pensa che la cosiddetta "great resignation", ovvero il licenziamento in massa, sia stata solo una parentesi di follia collettiva post pandemia ha un orizzonte miope e destinato a infrangersi contro lo scoglio del conservatorismo ostinato e della mancanza di ciò che è obbligata umanizzazione di processi, ruoli e cultura lavorativa. Parliamo di una grande transizione innovativa da portare avanti parallelamente a quella sostenibile, o che forse fa proprio parte dello stesso concetto di sostenibilità sociale. Un'evoluzione in organizzazione positiva (tema al centro della coverstory di Mark Up n.309 - maggio 2022) che porta vantaggi consistenti per il business e di cui continuiamo a parlare su queste pagine perché si tratta di presente in atto, con nuovi dati a costante conferma. Gli ultimi interessanti numeri sul tema sono quelli dell’Osservatorio HR Innovation Practice della School of Management del Politecnico di Milano, relativi all'Italia, ma anche della Harvard Business Review, che allargano lo sguardo oltreconfine.

Le motivazioni del turnover

Secondo l'Osservatorio HR il 45% degli occupati nel nostro Paese dichiara di aver cambiato lavoro nell’ultimo anno o di avere intenzione di farlo da qui a 18 mesi. Numeri che crescono per i giovani (18-30 anni), per determinati settori (ict, servizi e finance) e per alcuni profili (professionalità digitali). Tra le persone che hanno cambiato lavoro, 4 su 10 lo hanno fatto senza un’altra offerta di lavoro al momento delle dimissioni. Chi cambia lavoro lo fa principalmente per cercare benefici economici (46%), opportunità di carriera (35%), per una maggiore salute fisica o mentale (24%) o per inseguire le proprie passioni personali (18%) o una maggiore flessibilità dell’orario di lavoro (18%). Analizzando tre dimensioni del benessere lavorativo (fisica, sociale e psicologica), solo il 9% degli occupati dichiara di stare bene sotto tutti gli aspetti, con particolare criticità per quello psicologico: 4 su 10 hanno avuto almeno un’assenza nell’ultimo anno per malessere emotivo. Preoccupazioni che si riflettono anche sullo stato fisico, con difficoltà a riposare bene e/o insonnia (55%). Questo malessere, però, sembra quasi totalmente sconosciuto alle aziende, che solo nel 5% dei casi lo considerano un aspetto problematico. A questo si accompagna una diminuzione del livello di engagement: rispetto al 2021 i lavoratori pienamente "ingaggiati" passano da un già basso 20% a un preoccupante 14%. E solo il 17% delle persone si sente incluso e valorizzato all'interno dell'organizzazione.

Il tema della riqualificazione

Questo stato di insoddisfazione generale non è un problema solo a livello umano, ma impatta sul business sia in termini di costi e assenze dirette che di mancato rendimento e produttività quando la persona è presente, qualora servissero motivazioni di intervento misurabili economicamente. Ma si tratta anche di veri e propri gap di risorse. Non a caso secondo il 44% delle aziende la propria capacità di attrarre candidati è notevolmente diminuita e nel 2021 è proprio questo l’ambito su cui le direzioni HR hanno avuto maggiori criticità. A preoccupare le organizzazioni sono anche le difficoltà in termini di capacità di motivare, coinvolgere e trattenere le persone già presenti al loro interno. Nell’ultimo anno il tasso di turnover è infatti aumentato per il 73% delle aziende, a conferma di come l'altro lato della medaglia corrisponda. Un sotto-tema centrale è quello delle competenze digitali, il cui gap tra domanda ed offerta continua ad allargarsi (come già preannunciavamo sarebbe successo anni fa). A conferma il fatto che una posizione aperta su cinque riguardi proprio le professionalità digitali. Quasi totalità delle organizzazioni, il 96%, ha infatti difficoltà ad attrarre e sviluppare le competenze necessarie per affrontare la trasformazione digitale. Anche la riqualificazione della forza lavoro si rivela molto complessa. Nell’arco di 1 o 2 anni il 9% dei dipendenti dovrà essere riallocato perché non ha le competenze adeguate a svolgere il proprio lavoro, percentuale che supera il 15% in oltre 1 organizzazione su 10 (anche l'ambito della formazione può e deve evolvere con leve efficaci come la gamification).

Stili lavorativi imposti

Ciò nonostante, proprio perché la workplace culture è una questione innanzitutto di mentalità e visione aziendale, molte realtà anche per quei preziosi talenti digitali continuano a non offrire flessibilità di orari e opzioni come il lavoro da remoto. Solo negli Usa secondo la Harvard Business Review il 65% dei collaboratori vorrebbe lavorare interamente da remoto e in Europa la situazione non cambia: in Uk, ad esempio, 8 professionisti su 10 (78%) cambierebbero professione se potessero lavorare all’interno delle mura domestiche. Dall'altro lato, quando si tratta di vita d'ufficio, la stessa progettazione degli spazi all'insegna del benessere e dell'interazione positiva può fare la differenza. "Abbiamo deciso di progettare i nostri uffici in modo tale da realizzare veri e propri spazi a misura di relazione. Ciò vuol dire che i professionisti hanno la possibilità di confrontarsi con i propri colleghi nella forma più immediata possibile, riducendo così le tempistiche di realizzazione dei progetti e di perfezionamento dei prodotti. Questo cambiamento ha preso forma grazie all’adesione all’undicesima Design Marathon tenutasi presso la Naba, Nuova Accademia di Belle Arti", racconta ad esempio Gianmaria Monteleone, Ceo e founder di Senso e Younitestars.
Certo, nel complesso i talenti digitali, forti della vasta offerta, avranno modo di scegliere più liberamente stile lavorativo e tipo di azienda, ma questo non significa che il benessere di chi ricopre altri ruoli e mansioni non vada considerato, sfruttando il fatto che ha maggiori difficoltà nel trovare alternative. Questo tipo di approccio è perdente in partenza e ancor di più nel lungo termine, per non parlare dei risvolti in ambito di brand reputation e mancata advocacy dei propri dipendenti all'esterno. Casi di manifesta noncuranza delle persone, o di discriminazione in stile Elisabetta Franchi, avranno il loro non lieto finale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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