“Etichetta climatica” per gli alimenti: il costo del cibo con il suo impatto ambientale

Il danno ambientale derivante dalla produzione alimentare non è attualmente riflesso nei suoi prezzi. Esperimenti in tal senso arrivano dalla GDO tedesca, anche per venire incontro al consumatore flexitarian

Maximilian Pieper, Amelie Michalke e Tobias Gaugler sono tre ricercatori tedeschi che, in un recente articolo scientifico per Nature Communications, hanno messo in luce quale sarebbe il reale costo delle diverse categorie alimentari, se, nei processi di produzione, fosse incluso pure il loro impatto sull’ambiente. I tre ricercatori, affiliati rispettivamente all’Università tecnica di Monaco di Baviera, all’Università di Greifswald, e all’Università di Augusta, sottolineano pure come manchino ancora, a livello mondiale, delle analisi economiche approfondite e dettagliate su quelle che sono le esternalità ambientali e sociali del settore agricolo, che è per antonomasia uno dei principali emettitori di gas serra. Dal loro elaborato emergono dei dati che fanno riferimento al contesto tedesco, ma che possono costituire un benchmark altrettanto significativo per la situazione italiana. A tal proposito, i risultati mostrano che i costi esterni dei gas a effetto serra sono più elevati per i prodotti di origine animale convenzionali e biologici (2,41 € / kg di prodotto; 146% e 71% di sovrapprezzo sul livello di prezzo alla produzione), seguiti dai prodotti lattiero-caseari convenzionali (0,24 € / kg di prodotto; 91% di sovrapprezzo), con infine i prodotti vegetali biologici (0,02 € / kg di prodotto; sovrapprezzo del 6%) con il più basso impatto.

In buona sostanza, la carne da allevamenti convenzionali è quella che con una percentuale maggiorata del 146%, essendo la causa di emissioni più elevate. Tali emissioni elevate derivano dalla produzione di carne ad alta intensità di risorse, per cui, ad esempio, sono necessari 43 kg di mangime per produrre 1 kg di carne. Inoltre, anche le emissioni dell'animale stesso, attraverso il letame e la digestione, così come il riscaldamento delle stalle, sono fattori rilevanti che contribuiscono alle elevate emissioni di prodotti di origine animale.

Tali evidenze inducono a delle riflessioni su quello che deve essere, lato consumatore, una dieta sostenibile per salute e ambiente, e lato produttori/venditori, il modo più responsabile possibile di affrontare la complessità della questione. Il punto di partenza da tenere a mente, e non più ignorabile (anche se il produttore/commerciante/consumatore medio non è ancora abituato a riconoscerlo in maniera immediata), è che ci sono dei costi climatici per le diverse categorie alimentari, e che vi è l’urgenza di misure di politica economica che colmino il divario tra i prezzi di mercato attuali e i costi reali del cibo.

Andando alla radice della questione, un esempio in questo senso sarebbero gli incentivi all’agricoltura sostenibile e ai piccoli produttori per incoraggiarli a ridurre il loro impatto ambientale, ma che tuttavia non sarebbero sufficienti.

Vi è da ripensare totalmente quello che è l’ecosistema del food, e, ad oggi, quello che sembra essere una soluzione di compromesso positivo, sotto tanti punti di vista, è quello di un futuro plant-based, ovvero di un’alimentazione – non esclusivamente – ma prevalentemente basata su cibi vegetali. Si tratta, quindi, di acquistare maggiore consapevolezza e indurre i consumatori a modificare le proprie abitudini alimentari (contando che dietro il cibo vi è anche tutta una questione identitaria, culturale e relazionale, che va rispettata) prediligendo gli alimenti di origine vegetale rispetto a quelli di origine animale. Il tutto non comporterebbe diventare vegetariani o vegani, quanto più rappresentare il cosiddetto consumatore flexitarian (termine che nasce dall'unione dell'aggettivo flexible e dal sostantivo e aggettivo vegetarian), che pur non aderendo in maniera drastica ad uno specifico regime alimentare, riduce il proprio consumo di prodotti ad alto impatto ambientale. Ecco perché, il flexitarian è colui che può innescare un cambio di rotta ed essere il vero game changer in questo settore.

Tale “pubblico target”, composto da persone sempre più informate e consapevoli in materia, è anche quello che il retail dovrebbe essere in grado di soddisfare nella maniera più completa ed autentica. La Germania si dimostra ancora una volta all’avanguardia sul tema, tanto che l’introduzione di “etichette climatiche” accanto alle tradizionali etichette con il prezzo sono già in via di sperimentazione. È il caso del gruppo GDO Rewe, e della sua catena Penny in quel di Berlino (Berlin-Spandau), che sta testando queste “etichette duali” nei suoi negozi "Nachhaltigkeitsmarkt" (mercato della sostenibilità).

La doppia etichetta sperimentata a Berlino dal retailer Penny (etichetta con il prezzo di vendita in rosso; "etichetta climatica" in verde che mostra il sovrapprezzo a carico dell'ambiente del prodotto)
© Rolf Vennenbernd/dpa

Partendo da otto prodotti a marchio proprio prodotti in modo convenzionale e biologico, il retailer indicherà il “prezzo reale” oltre al prezzo di vendita. Questo verrà, ad esempio, per il latte a lunga conservazione, per cui esporrà il prezzo d’acquisto, ma anche il “costo reale” di 1,75 euro, la confezione da 250 g di carne macinata biologica esporrà il prezzo al dettaglio di 2,25 euro, ma anche il “costo vero” di 5,09 euro.
Il cliente pagherà il prezzo “normale”, ma in fin dei conti si tratta di un’operazione di sensibilizzazione per un retail green.

Stefan Magel, Chief Operating Officer di Penny, considera l’iniziativa come un primo passo importante verso una maggiore sostenibilità: “Dobbiamo arrivare al punto di rendere visibili i costi di follow-up del consumo. È l’unico modo perché il cliente possa prendere una decisione di acquisto consapevole”.

LASCIA UN COMMENTO

Inserisci il tuo commento
Inserisci il tuo nome