Generazione connessa

Brand Managers sull’orlo di una crisi di nervi? Un po’ sì, soprattutto quelli che devono indirizzare i propri piani marketing ai Millennials, sempre distratti, multitasking, con le dita volanti sul cellulare e poco attenti ad altro. Non sono rare le statistiche che ci illustrano, inoltre, un rapporto di fiducia oramai incrinato tra brand e consumatori, specialmente con i più giovani: il passaparola (online o personale) è la fonte di informazione più autorevole per scegliere un prodotto (vedi dati infografica pag 49); i livelli di attenzione verso spot pubblicitari televisivi sono sempre più bassi; la fruizione dei media tradizionali, ovvero TV, stampa, radio, affissioni è erosa dalla fruizione di marchingegni a schermo ridotto, presso cui i modelli economici di valorizzazione pubblicitaria non sono ancora stabili. È davvero così difficile fare marketing verso i Millennials? Davvero occorre dimenticare ogni modalità di comunicazione più canonica, anche quando possiamo contare su un piano media milionario e la miglior creatività premiata a Cannes? Basta dunque avere dei buoni “ambassadors” con ingenti “follower” su Instagram, una campagna esilarante e idiota che faccia il giro del web, e destinare investimenti solamente ai media digitali, per conquistare i Millennials?
Anche in questo numero (dopo la prima e la seconda puntata ndr) il tema dei tanti stereotipi che circolano nella business community a proposito di Millennials, completando la lista con gli ultimi 3 scelti tra i 10 stilati per questa rubrica.

Il brand non conta più, meglio un amico Il 54% dei Millennials italiani dichiara “amici e parenti” come fonte influente rispetto alle proprie decisioni di acquisto, al secondo posto mettono il punto di vendita (50%), mentre solo il 35% attribuisce questo ruolo al sito della marca. Per ogni altra generazione, invece, è il punto di vendita ad essere la fonte principale di influenza, anche per i segmenti più digitali (51% punto di vendita vs 36% amici e parenti, presso gli adulti 45+ anch’essi utenti internet): lo store è sempre stato il luogo in cui l’idea di acquisto incontra il prodotto e le ultime informazioni utili alla decisione, come il prezzo, il pack e i materiali promozionali. Cosa accade invece con questi ragazzi? Basta davvero un’opinione di un amico per azzerare milioni di budget pubblicitari, anni di ricerca e sviluppo sul prodotto, magari una storia secolare e milioni di “servings” in tutto il mondo?
Ebbene sì. Google lo chiama ZMOT (“Zero Moment Of Truth”, https://www.thinkwithgoogle.com/collections/zero-moment-truth.html), il momento della verità su un prodotto che precede l’acquisto nel punto di vendita (primo momento) e il consumo (secondo momento). È il periodo di tempo che intercorre tra l’idea di acquisto e la definizione della soluzione, spesso trascorso tra siti di opinioni e recensioni, social network e siti web per comprendere quale potrebbe essere la scelta migliore. Non vale per tutte le categorie di prodotto, ovviamente: ci sono acquisti routinari o basilari per i quali il gesto di acquisto non procede in questo modo; ma per molti altri acquisti il processo è proprio questo. I Millennials, infatti, non dicono più, una volta deciso di acquistare un bene: “beh, andiamo in negozio e vediamo”, ma “Googliamo un attimo e poi andiamo in negozio a vedere se conviene”. Il fattore “negozio” è sostituito dal web? Occorre piuttosto vedere le cose in una logica consequenziale e non sostitutiva: gli amici o il web in generale, non sostituiscono il valore creato sul brand dalle leve di marketing, ma con queste si integrano. Per questo sbaglia chi afferma che oggi, per i giovani, il brand non è più importante. Il brand, ovvero l’insieme di valori che il marketing e comunicazione è in grado di generare attorno a un prodotto, è ancora estremamente rilevante, ci mancherebbe, ma occorre tenere presente che questi valori oggi sono continuamente verificati dai Millennials, attraverso le esperienze raccontate da altri, amici o meno, incontrati online come offline.
Ciò che tuttavia cambia in maniera sostanziale, rispetto alle generazioni precedenti, è il modo di valorizzare gli attributi di marca. Un brand è forte, per i Millennials, se riesce a creare connessione emotiva basata sul concetto di somiglianza e non più di aspirazionalità. I brand più legati ai giovani non sono i marchi che mostrano un mondo ideale, a cui tendere, ma i brand con cui ritrovarsi simili, per ciò che mostrano, sono e fanno. Questo è il concetto di “brand bonding” per i giovani, oggi: la vicinanza, la riconoscibilità, il sentirsi parte dello stesso modo di fare e pensare. Se invece pensiamo al brand come al protagonista di un film eroico, allora non possiamo che trovarci d’accordo con quei consulenti che dicono che il brand non significa più nulla, oggi, per i giovani. L’equivoco sta proprio qui, probabilmente: il brand è ancora un elemento di forte attrazione per i giovani (vedi dati infografica pagina precedente), ma sono mutate le motivazioni di affezione e di engagement rispetto al passato.

Basta farli divertire Un elemento fondamentale dello S.T.I.L.E. dei Millennials (www.generazione20.it) è la loro richiesta di intrattenimento in ogni situazione (E.sperienza). Secondo questa prospettiva, i diversi momenti di contatto con il brand, dalla scelta di acquisto, all’atto di consumo, fino al post-acquisto, dovrebbero essere una occasione di intrattenimento: non un “touch point” ma un “experience point”, potremmo dire. Quindi sì, se una iniziativa, che sia una pubblicità o un post su Facebook, è divertente avrà più chances di attirare l’attenzione, suscitare gradimento e girare sui social, perché l’ironia e lo spasso sono delle leve emotive che intrattengono. Ciò, tuttavia, non implica che sia solo il divertimento a muovere i likes e gli shares: ogni iniziativa che sia in grado di suscitare engagement emotivo avrà le stesse chance di successo, che sia una parodia o una storia emozionante. Anche in questo caso, quindi, attenzione alle semplificazioni e ai pregiudizi: i Millennials amano divertirsi, ovviamente, come i giovani di tutte le ere, anche in modo spensierato; ma ciò che li contraddistingue dalle altre giovani generazioni del passato, è piuttosto la loro ricerca costante di emozioni, di esperienze, di immersione nelle cose. Essere cresciuti con i social media, ha significato acquisire questa innata necessità di vivere le cose sempre in prima persona, in modo interattivo e partecipato, e di condividere esperienze con gli altri. Non basta quindi farli divertire, seppur questa sia una leva di attrazione efficace: semmai, basta (per così dire…) creare iniziative coinvolgenti, divertenti o meno, e favorire con queste delle fruizioni in modalità immersiva. Il ruolo della creatività quindi è fondamentale, ma è monca, per i Millenials, senza meccaniche di ingaggio in grado di stimolare l’esperienza e l’immersione dell’utente. Interazione, gamification, role playing, virtuality, etc sono alcune delle tecniche utilizzabili sotto questa logica. Sarà per questo, forse, che le aziende della Silicon Valley chiedono agli ingegneri di partecipare alle riunioni creative? L’attività creativa del pubblicitario deve essere uno stimolo alla creatività dei ragazzi, questo probabilmente è il trucco: un passo indietro per il pubblicitario? Molto probabilmente un grande passo in avanti, verso i Millennials!

Non guardano più la TV Non vi sono statistiche solide che provano che la fruizione di contenuti televisivi presso i giovani sia diminuita in misura considerevolmente maggiore rispetto alle generazioni adulte. Infatti, se è vero che i media cosiddetti tradizionali tendono a perdere audience a favore di quelli digitali un po’ per tutti i target, poiché maggiori sono le opportunità di fruizione di contenuti di intrattenimento presso altri device, è anche vero che, se si sommano le “tante TV” di cui oggi dovremmo tener conto (contenuti televisivi emessi dai siti delle emittenti o fruibili su YouTube stesso), la fruizione dei giovani risulterebbe ancor maggiore di un tempo. Ciò che conta, quindi, non è tanto analizzare il media da un punto di vista del device, se vogliamo seguire il pensiero dei Millennials. Ciò che conta sono invece i contenuti, non le modalità con cui questi vengono diffusi. Per questo vi sono programmi televisivi di successo anche presso i giovani e programmi che perdono audience, a prescindere dalle strategie digitali che gli stessi mettono in campo. Quindi: se i giovani non guardano la TV, non è tanto perché la trovano vecchia o perché giudicano la modalità di fruizione poco accattivante, perché sono abituati ad essere loro al centro di interazioni e attività condotte con i molteplici device che hanno in mano. Non la guardano perché è il contenuto a non essere accattivante, indipendentemente dall’idea dell’autore di diffondere un “hashtag” con cui “twittare”. Il coinvolgimento, l’interazione, l’immersione nel contenuto televisivo, quindi, dipende in primis dal contenuto e dal taglio dato allo stesso, anche perché saranno poi i Millennials a far circolare lo stesso nelle varie piattaforme digitali, se lo riterranno accattivante. Non chiediamoci più, quindi, se la TV sia ancora un mezzo appropriato per i giovani, ma se i contenuti siano davvero in linea con lo S.T.I.L.E. dei Millennials. Guardate le audience di programmi come X Factor, il loro profilo e l’ingaggio generato. Se volete, poi, paragonatelo pure a Sanremo, ma non confondete mezzo e contenuto.

Millennials: chi sono
È la generazione del nuovo millennio: i più giovani sono adolescenti di circa 15-16 anni, i più “anziani” ne hanno 30. Hanno tratti peculiari rispetto alle generazioni del passato e molto probabilmente anche rispetto a quelle che seguiranno: per primi, sono cresciuti con il web 2.0, fatto di blog, forum, social network e hanno affrontato la propria crescita individuale e sociale in un mondo totalmente connesso, immediato, comunicativo, partecipativo e democratico nel senso più alto del termine. I Millennials sono divenuti estremamente rilevanti e influenti nei processi di acquisto della famiglia: 3/4 di loro vive o ritorna a vivere in famiglia, con l’effetto di incidere sul bilancio famigliare in modo significativo; parlano, postano, leggono e vivono nel mezzo del word of mouth e per questo potenzialmente ambassadors o acerrimi detrattori di aziende, prodotti e iniziative di comunicazione.

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