So bene che l’attuale tendenza della società verso paradigmi “less is more” indirizza
anche la comunicazione commerciale a una crescente semplificazione del messaggio, ma noto alcune esagerazioni. Penso all’universo del food (che pure darebbe ai pubblicitari più di un’occasione per un accattivante storytelling di prodotto): dopo la birra che si dichiara “probabilmente” la migliore al mondo (facendo dell’avverbio probably una vera e
propria campagna), oggi uno yogurt greco si definisce nello spot “probabilmente” perfetto. Questo azzeramento comunicativo non mi sembra casuale: per certi versi è forse l’ennesimo stadio di quel marketing “senza” che, esasperando una certa voglia di salutismo, tende a evidenziare non più l’ingrediente, ma ciò che al prodotto alimentare manca: senza grassi, senza zucchero, senza glutine, senza lattosio, senza olio di palma ecc. Ora, dal punto di vista di una organizzazione di consumatori (a parte il fatto che continuo a chiedermi perché questi alimenti, seppur in qualche caso impoveriti rispetto a quelli tradizionali, costino generalmente di più), vorrei evidenziare un rischio per la già precaria consapevolezza alimentare dei cittadini: il marketing “senza” esalta prodotti-scorciatoia (cioè quelli capaci di assicurare soluzioni miracolistiche) e ciò spinge a radicalizzare la dieta escludendo alcuni cibi, spesso sulla base di autodiagnosi che portano, ad esempio, a dichiararsi allergico o intollerante in percentuali di gran lunga superiori a quelle riconosciute dalle statistiche ufficiali. Se la comunicazione pubblicitaria continua a demonizzare alcuni alimenti, temo che questo sarà il peggior marketing di sempre (probabilmente).
Gli opinionisti di Mark Up – Massimilano Dona
Probabilmente il peggior marketing di sempre (da Mark Up n. 254)