Il futuro smart del lavoro: dalla Great Resignation alla YOLO Economy

Secondo l’Osservatorio Smart Working PoliMi, in Italia, il lavoro agile resterà in 89% grandi aziende e in 62% PA, per un totale di 4 mln di smart worker. Le premesse di tutto questo sono solo in parte da attribuire allo shock pandemico

YOLO (You Only Live Once), sigla inglese traducibile in “Si vive una volta sola”, potrebbe descrivere la tendenza che definisce la forza lavoro dell'anno 2021. Se, infatti, “Languishing” (languire, inteso come assenza di benessere che spegne motivazione, obiettivi e prospettive), termine coniato dal sociologo Corey Keyes, è stato decretato dal New York Times (NYT) l'emozione dominante del 2021, l’approccio YOLO vuole porsi come una reazione a questo senso di impotenza e direzione, per quel che riguarda il lavoro e la sua organizzazione. La parola YOLO è diventata virale a partire dal 2011 grazie a una canzona del rapper canadese Drake e per molto tempo è stata quasi ad esclusivo appannaggio di MEME e social media, oggi ha assunto dignità di “filosofia di vita”, tanto da ispirare un filone chiamato “YOLO Economy”. Sempre in un articolo del già citato NYT dell’aprile 2021, Kevin Roose, tratteggia in maniera chiara quelle che sono le caratteristiche principali di quest’economia che ha come fautori principali Millennials e Gen Z: l’impatto – anche emotivo – della pandemia ha contribuito a dare un’accelerata a prendere decisioni audaci e non aver paura di esporsi ai rischi, come quelli di cambiare totalmente vita e avviare attività imprenditoriali all’insegna dell’autonomia e di una risposta ad una propria vocazione/chiamata sempre rimandata o messa a tacere. Considerato l’impatto tutt’altro che trascurabile della pandemia, che è quindi rilevante a prescindere, quest'approccio ha da trovare le sue radici ben più profonde nel digitale e nelle sue pieghe tra opportunità e distorsioni. Di fatti, se il digitale è stato ed è fondamentale per il progresso a tutto tondo (dalla comunicazione, alla continuità delle attività, all’analisi dei big data) e, non ultimo, per ottimizzare il lavoro delle persone da mansioni ripetitive e a basso valore aggiunto, è altresì vero che ha prodotto distorsioni dovute ad un uso/abuso dello stesso. Complice la pandemia e i lockdown, quindi, l’essere sempre connessi e davanti a schermi (dallo smart phone al PC) ha scatenato un “tecnostress” e una fatica, che in alcuni casi ha creato forme d’ansia più o meno pesante (la FOMO  - Fear of Missing Out – ne è un esempio), fino a esaurimento clinico (Burnout). Il tutto aggravato da una mancanza totale di separazione tra vita privata e lavoro, che ha reso i già sbiaditi confini funzionali ad una work-life balance sempre più invisibili.

Da questo coacervo di cause, in questi ultimi mesi che hanno visto le prime riaperture dai lockdown più serrati dovuti al Covid-19, si sta registrando una tendenza che a partire dagli Stati Uniti, dove i numeri sono ad oggi i più sostanziali, che si nutre dalla filosofia YOLO sopraccitata: si tratta della “Great Resignation” o “Big Quit”, ovvero dello straordinario aumento di dimissioni volontarie da parte dei lavoratori statunitensi, e non solo.

In base agli ultimi dati del dipartimento del lavoro USA, i lavoratori dimissionari in cerca di migliori opportunità, a settembre 2021, sono arrivati a 4,4 milioni. Alcuni di questi, insoddisfatti della retribuzione e della qualità della vita, hanno scelto anche di manifestare. Secondo quanto riporta un articolo del Washington Post, quest’anno negli USA ci sono stati almeno 178 scioperi: tra i più recenti si annoverano quello di diecimila dipendenti del produttore di macchine agricole John Deere e le proteste dei sindacati che rappresentano i trentuno mila lavoratori dell’assicurazione sanitaria Kaiser.

Dimissioni negli USA con picco nel settembre 2021
© U.S. Bureau of Labor Statistics - rielaborazione: fred.stlouisfed.org
https://fred.stlouisfed.org/series/JTSQUL#0

Al di là dei dati specifici e del fatto che questa ondata di dimissioni non è solo una prerogativa statunitense, il vero motivo dietro questo fenomeno risiede nella volontà di uscire dalla retorica del “workism”. Si tratta dell’idea per cui  valorizzarsi vorrebbe dire dedicare l’intera vita al lavoro, come se non ci fosse nulla di più importante o prioritario (indipendentemente da retribuzione o condizioni specifiche), quasi ci fosse una “religione del lavoro”. E non è un fenomento esclusivamente statunitense: anche in Italia il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha recentemente pubblicato i dati sulle cessazioni dei rapporti di lavoro nel secondo trimestre del 2021, in cui si osserva una crescita tendenziale del +43,7%. In questa percentuale si collocano circa 484mila per dimissioni volontarie dei lavoratori.

Da ciò discende la necessità sempre più urgente di riorganizzare il lavoro, rendendo veramente “intelligente” e “agile” quello che si ostina a chiamare sempre smart working, anche se di fatto non lo è. Lo smart working è, infatti, la possibilità di destrutturare il tempo e lo spazio di quel lavoro intellettuale che la società industriale aveva accorpato, lasciando l’individuo flessibilità e libertà di organizzare al meglio il suo lavoro sulla base di determinati obiettivi e in ottica di conciliazione del già citato work-life balance.

A tal proposito è interessante ripercorrere in maniera macro le tappe che hanno è portato, storicamente, all’affacciarsi dello smart working nel mondo del lavoro, e in tal senso risulta funzionale quanto si legge nel libro di Domenico De Masi “Smart working - La rivoluzione del lavoro intelligente” (Marsilio, 2020): “Per millenni, fino alla metà del Settecento, i contadini e gli artigiani rappresentavano più del 70 per cento della popolazione attiva e le forme rappresentative del lavoro erano la fattoria, la bottega e lo studio professionale situato nella casa stessa del professionista. Durante la fase industriale, dalla metà del Settecento alla metà del Novecento, i manovali e gli operai hanno rappresentato il 70 per cento delle forze lavoro e le forme più rappresentative dell’attività umana sono state la fabbrica e l’ufficio. Nella società postindustriale, quella che noi stiamo vivendo dalla metà del Novecento in poi, gli impiegati, i manager, i professionisti rappresentano il 70 per cento dei lavoratori e la forma più rappresentativa della loro attività è lo smart working. Come il passaggio dal lavoro nelle botteghe a quello nelle fabbriche richiese alcuni decenni, così il passaggio dal lavoro negli uffici allo smart working richiederà ancora del tempo, ma la pandemia del Coronavirus ha inaspettatamente accelerato il processo, che proseguiva con lentezza eccessiva a causa di un tenace rifiuto delle aziende e delle pubbliche amministrazioni.”  La necessità di un passaggio verso l’adozione di uno smart working che non sia una banale traslazione del lavoro in ufficio tra le mura domestiche come fosse un home office/teleworking è sempre più urgente, proprio perché, sempre con le parole di Masi nel suddetto libro “Se la bottega era perfetta per creare opere uniche, la fabbrica è perfetta per eseguire prodotti in serie. E gli uffici nati accanto alla fabbrica ne hanno ricalcato l’organizzazione: come gli operai sono stati imbrigliati nella catena di montaggio meccanica per svolgere un lavoro ripetitivo e tendenzialmente inumano, così gli impiegati, i funzionari, i manager sono stati imbrigliati nella catena di montaggio burocratica per svolgere un lavoro seriale […]”.

Per quello che riguarda lo stato dell’arte dello smart working in Italia è, allora, possibile fare riferimento all’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano. Da quanto emerge dai dati raccolti, lo smart working rimarrà o sarà introdotto nell’89% delle grandi aziende, dove aumenteranno sia i progetti strutturati sia quelli informali, nel 62% delle PA, in cui prevalgono le iniziative strutturate ma anche molta incertezza sul futuro (un quarto non sa se lo smart working potrà restare o iniziare nel post-Covid), e nel 35% delle PMI, fra cui prevale un approccio informale (22%) ed è forte la tendenza a tornare indietro (un terzo di quelle che ha sperimentato lo smart working prevede di abbandonarlo). Le modalità di lavoro in smart working torneranno ad essere ibride, alla ricerca di un miglior equilibrio fra lavoro in sede e a distanza: nelle grandi imprese sarà possibile lavorare a distanza mediamente per tre giorni a settimana, due nelle PA.

La scelta di proseguire con lo smart working è motivata dai benefici riscontrati da lavoratori e aziende. L’equilibrio fra lavoro e vita privata è migliorato per la maggior parte di grandi imprese (89%), PMI (55%) e PA (82%). Tuttavia, la combinazione di lavoro forzato da remoto e pandemia ha avuto anche conseguenze negative sugli smart worker: è calata dal 12% al 7% la percentuale di quelli pienamente “ingaggiati”, il 28% ha sofferto di "tecnostress", il 17% di overworking. Ciò è dovuto ad un mancato rispetto della vera natura del smart working nella sua accezione originale, in concomitanza con le limitazione dei lockdown.

Sempre sulla base dell’Osservatorio, è possibile notare che nel corso del 2021 con l’avanzamento della campagna vaccinale è progressivamente diminuito il numero degli smart worker, passati da 5,37 milioni nel primo trimestre dell’anno a 4,07 milioni nel terzo trimestre. A settembre, infatti, si contano complessivamente 1,77 milioni di lavoratori agili nelle grandi imprese, 630mila nelle PMI, 810mila nelle microimprese e 860mila nella PA. Progetti di smart working strutturati o informali sono presenti nell’81% delle grandi imprese (contro il 65% del 2019), nel 53% delle PMI (nel 2019 erano il 30%) e nel 67% delle PA (contro il 23% pre-Covid).

Queste evidenze dimostrano che il futuro del lavoro, in termini di organizzazione, è ancora da tracciare in maniera puntuale e possibilmente senza troppi condizionamenti. Come afferma Alessandra Gangai, Direttrice della Ricerca Smart Working nella PA, “Per cogliere tutti i benefici dello smart working serve l’impegno di tutti i soggetti. Alle organizzazioni spetta il compito di strutturare progetti coraggiosi, lavorando su policy, tecnologie, spazi di lavoro e stili di leadership; i lavoratori devono allenare skill più adeguate al nuovo work-life balance; i policy maker devono accompagnare questa trasformazione con onestà intellettuale e lungimiranza”.

 

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