Il nuovo ruolo delle aziende nell’era della post-verità, tra clickbait e fiducia

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Dallo stile "acchiappa consenso", che raccoglie nel breve termine, alla costruzione di una fiducia duratura: questa la nuova demarcazione per tutti

Che cos'è la post-verità? La Treccani ci spiega che si tratta di "un'argomentazione, caratterizzata da un forte appello all'emotività, che basandosi su credenze diffuse e non su fatti verificati tende a essere accettata come veritiera, influenzando l'opinione pubblica". Indubbiamente, siamo nell'epoca storica in cui la post-verità è forse il più grande nemico da combattere, una vera e propria pandemia nella pandemia che, a dispetto di qualunque logica, mette concretamente a rischio la nostra quotidianità.

La maggiore insidia della post-verità è che non si può combattere con un attacco frontale e con i carrarmati, che non farebbero altro che rafforzarla, ma nemmeno solo con solide prove, perché le sue radici poggiano su una strenua difesa irrazionale della posizione fino alla fine: il malato di Covid ancora convinto che si tratti di una mera influenza anche in punto di morte, il terrapiattista che crede sinceramente che il nostro pianeta sia piatto e così via. La post-verità poggia su un miscuglio di ragioni che, a differenza di quanto spesso si pensi, non hanno squisitamente a che fare con la mancanza di cultura ed istruzione, ma con la ricerca di uno sbocco a paure, sofferenze, sensazioni di frustrazione, mancato riconoscimento sociale e percezioni negative più facili da gestire focalizzandosi sul contorno anziché sul sé.

Non deve stupire, quindi, che la post-verità arrivi alle fantasie più assurde, perché il focus non sembra essere il tema in sé ma l'efficacia della sua narrazione, la sua capacità di fare leva su alcuni bias cognitivi e così via (maggiori approfondimenti li lasciamo a psicologi e sociologi). Lo hanno dimostrato benissimo due esempi come il pastafarianesimo e il più recente fenomeno "Birds Aren’t Real", il primo nato come forma di protesta colta che tuttavia è finita per dare vita a una vera e propria schiera di credenti, il secondo ideato proprio con l'idea di rieducare i creduloni. In entrambi i casi si mostra chiaramente come per costruire un falso-complotto o una bufala di successo il punto non sia la verosimiglianza o il realismo, ma la capacità di adottare una comunicazione con tempi e linguaggi ben precisi.

La teoria alla base del movimento “Gli uccelli non sono reali”, in sintesi, è che il governo degli Stati Uniti avrebbe commissionato l’omicidio di massa di 12 milioni di volatili dal 1959 al 2001, rimpiazzandoli con droni progettati per spiare il popolo americano. Un movimento creato 4 anni fa e che ha raccolto attorno al milione di seguaci convinti. L'intento dei suoi creatori, tuttavia, era proprio quello di fare una parodia della disinformazione e combatterla dopo aver dimostrato quanto sia facile produrla. A spiegare tutto di recente è stato l'ideatore Peter McIndoe, 23 anni, indicando "Birds Aren’t Real" come tentativo della generazione Z di "combattere la follia con la follia".

Tutto questo insegna molto al mondo delle istituzioni, a noi professionisti dell'informazione, ma anche alle aziende. Il mondo del business oggi è chiamato sempre più spesso non solo a prendere posizioni importanti e delicate sul fronte politico e sociale (la guerra russo-ucraina è l'ultimo degli esempi), ma a decidere se avere o meno un ruolo di rilievo nella lotta a disinformazione e fake news. Un tempo le avremmo semplicemente chiamate panzane, ma oggi il termine non restituisce la giusta gravità al fenomeno.

Se è vero che le aziende sono sempre più attori sociali a tutto tondo, osservate e giudicate da monte a valle, anche a loro oggi è richiesto di scegliere tra un approccio in "stile clickbait" che porta risultati nel breve, erodendo tuttavia l'autorevolezza nel lungo termine, e tra il diventare costruttori e custodi di fiducia, ovvero un riferimento autentico per le comunità in cui operano e i consumatori cui si rivolgono. Abbiamo, ad esempio, diversi attori della gdo che lavorano a braccetto con il mondo delle scuole e della salute, spesso facendo edu-tainment su temi quali l'alimentazione o la prevenzione: non sono certo queste le iniziative da clickbait che fanno rumore e diventano virali, ma si tratta di semi che guardano al domani.

Parliamo di una scelta identitaria ancor prima che di business, perché insegnare alle persone a "bere responsabilmente" (cit. Heineken) quando si produce birra potrebbe apparire controproducente, così come ammettere che il proprio settore contribuisce più di altri all'inquinamento, o che il nostro prodotto non è adatto a un consumo quotidiano (etichetta a semaforo o meno). Fare tutto questo significa scegliere l'onestà intellettuale e la luce del sole, anziché la zona d'ombra della (talora comoda) post-verità, ma significa anche diventare nel tempo interlocutori degni di fiducia che, quando la fake news, magari sul proprio settore, si presenta, sono in grado di ribattere e smontarla.

La stessa linea di demarcazione tra i due approcci, peraltro, è destinata a farsi più profonda anche nel mondo dei media e della comunicazione, dove le audience cercano siti autorevoli a beneficio di professionisti e specializzati. Il conflitto tra Russia e Ucraina ha mostrato ancora una volta sia quanto real e fake sui social si mescolino, tra sciacalli della crisi e rimbalzi non verificati, sia quanto questi canali possano diventare nuovi strumenti di lotta alla propaganda dal basso (centrale anche il tema della cyber-sicurezza affrontato su queste pagine con profetico tempismo da Giovanna Chiara Italiano).

In questo turbinio caotico di verità, verosimiglianza e post-verità non basta, insomma, deridere chi pensa che gli uccelli siano droni o che la Terra sia piatta, relegandoli a minoranza disadattata, ma è necessario interrogarsi sulla natura profonda del proprio ruolo, agendo di conseguenza.

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