Governo delle interdipendenze: l’ambiente domestico diventa predominante

La tendenza del momento è il “fastidio a dover uscire”. Il business deve leggere in ottica sociologica questi fenomeni e interpretare i desiderata dei clienti

Che gli acronimi inglesi vivano un momento di hype è un fatto, e non ne resta escluso neanche il 2022 che è stato definito l’anno di HOGO. L’acronimo sta per Hassle Of Going Out, traducibile in “fastidio a dover uscire” e descrive quella mancata voglia di lasciare la propria casa per andare a mangiare/soggiornare fuori o per qualsiasi altro tipo di attività ludico-ricreativa che si svolga oltre le mura domestiche. Che questo sia una diretta conseguenza del periodo di pandemia è piuttosto ovvio, a maggior ragione se si pensa che il contraltare di HOGO, prima della pandemia e con lo zampino del digitale, era la FOMO, Fear Of Missing Out, ovvero "paura di essere tagliati fuori/ di essere esclusi”, una forma di ansia sociale caratterizzata dal desiderio di sapere e fare per rimanere continuamente al passo con le attività svolte da altre persone, e dalla paura di non essere parte di eventi, esperienze, o contesti sociali gratificanti. Il modello di una vita a prova di FOMO, quindi, era un must fino ad inizio 2020, quando la civiltà era impegnata in un’esistenza “estroversa” (trasporti, lavoro, ristoranti, aperitivi, appuntamenti, viaggi, ecc.), con pulsioni a determinati tipi di acquisti. L’arrivo del virus e la sua inesorabile diffusione con il conseguente confinamento ha sparigliato le carte e imposto nuove abitudini e stili di vita che, al di là delle conseguenti limitazioni di libertà personale “per forza maggiore”, ha messo in discussione ciò che era “normale” e fatto progressivamente prendere le distanze da una sorta di “intossicazione” (consumistica e non) dai ritmi compulsivi pre-pandemia, anche per un senso di paura e disagio rispetto a quello che si è vissuto, e dalla consapevolezza che ancora non se ne è venuti fuori al 100%. Le mura domestiche sono, infatti, diventate sinonimo di ufficio, cinema, ristorante, sala giochi e bar, e chi ne ha più ne metta, ridimensionando i perimetri esterni delle vite dei più. Questi aspetti sono legati all’interdipendenza tra attori, fenomeni e situazioni che mai nel corso della storia è stata così forte. Un grado di connessione (e globalizzazione) che ha quasi come effetto estremo il suo contrario, la deglobalizzazione, come reazione all’estremismo della stessa. L’interdipendenza è talmente incorporata nella società che richiede, con un’espressione di Filippo Barbera, Professore ordinario di Sociologia economica dell’Università di Torino, un “governo delle interdipendenze”. Questo è ovviamente vero in termini polito-economici, ma anche sociologici. L’HOGO, che va tanto di moda sottoforma di hashtag sui social network e non, va ben oltre la moda di usare un acronimo nuovo. Dietro di questo vie è un più articolato spaccato che i brand devono saper interpretare se vogliono cogliere opportunità di business corrispondendo a aspettativi e desideri (più o meno esplicitati) dei clienti.

Secondo quanto riportano il The Sunday Times e il Daily mail a novembre 2021, il fenomeno HOGO colpisce anche se si già è pagato un biglietto in precedenza. UKHospitality, un ente commerciale britannico che rappresenta dagli hotel alle attrazioni turistiche, ai bar e ai ristoranti, ha calcolato che i no-show agli eventi sportivi e musicali prepagati sono stati circa il 15 per cento, e il 15-20 per cento nei ristoranti. Sempre nel Regno Unito, la catena di ristoranti di cucina italiana “Gusto Italian” ha dichiarato di aver sperimentato 1.000 assenze in una sola settimana a fine novembre 2021 nei suoi 12 ristoranti sparsi in tutto il Regno Unito, che sono costate decine di migliaia di entrate.

Cercare di intercettare e soddisfare i bisogni di clienti alle prese con le complicazioni legate allo shock fin ora più pesante di questo secolo (a cui si spera di non doverne sommare di ulteriori) è compito del business. HOGO ha come buyer persona quello che con uno slang inglese viene chiamato Homebody, una persona che preferisce stare a casa e che, però, sarebbe riduttivo relegare al ruolo di pantofolaio da “Netflix and chill” o che sia semplicemente qualcuno influenzato dalla stagionalità, e che, quindi, con la bella stagione e il caldo muterà del tutto i suoi comportamenti.  Si tratta di qualcosa di più profondo e con più sfumature relativamente agli effetti della pandemia. A tal proposito, nel contributo “L’immaginazione sociologica e le conseguenze sociali del Covid-19” di Tiziano Bonini contenuto nel libro “Shockdown” a cura di Manolo Farci (Meltemi, 2021) si esplicita come “i media digitali si siano dimostrati fondamentali per sostenere il tessuto sociale della vita quotidiana durante i giorni di isolamento domestico. Questi hanno anche riportato in auge vecchie profezie dimenticate come quella della fine della distanza […]. In realtà, internet non ha annullato le distanze, le ha “mediatizzate”, così come ha “mediatizzato” molti altri aspetti della vita un tempo non ancora sottoposti all’influenza dei media […]. Cosa significa che la distanza è stata “mediatizzata”? Non significa che sia sta semplicemente “mediata” da Skype o dallo smartphone, come se questo processo di mediazione fosse neutrale, ma significa che la logica dei media digitali ha cambiato in profondità il campo dei rapporti interpersonali a distanza, riconfigurandone pesantemente i termini. Le piattaforme di video-conferenza e di video-chiamata ci hanno sì permesso di mantenere i contatti con i nostri genitori, amici e parenti confinati in altri spazi domestici, ci hanno sì permesso di ricostruire un “senso di casa”, per quanto fragile e temporaneo […], ma a che prezzo?  Il prezzo è la perdita dell’“aura” della comunicazione interpersonale, la ricchezza informativa e la pienezza emotiva di un’interazione non sottoposta a mediazioni tecnologiche […]”. Il ragionamento qui riportato in riferimento ai media digitali può essere traslato al business e al retail che ha visto una “mediatizzazione” sempre più spinta del digitale, e il boom dell’eCommerce dal 2020 in avanti non mente. Il ruolo, oggi, dello store fisico, però, è più strategico che mai, così come – seppur mediata da un’interazione digitale – l’istaurarsi di una relazione di valore tra cliente e brand.

Infatti, sempre con le parole di Bonini, “se la socialità mediatizzata – che un tempo si affiancava a quella non mediata come una protesi tecnologica in grado di sopperire ai suoi limiti – diventa l’unica socialità possibile o prevalente, allora rischiamo davvero di perdere del tutto l’unicità, l’aura appunto, della socialità non mediata, e tutta la ricchezza di informazioni che da questa derivava”.

Dietro il disagio di HOGO ora, come anche della FOMO prima, vi è inespressa verbalmente ma allo stesso tempo urlante la necessità di relazioni autentiche che permettano di sentirsi appagati con quello che si ha e si decide da fare (FOMO), e di accettare la necessità di sentirsi più protetti e al sicuro nella propria zona di comfort (HOGO), non privandosi però di tutta una serie di esperienze di alto livello home centered (dal delivery allo streaming) che gli anni di pandemia hanno etichettato come possibili. Tra le pieghe di questi ragionamenti vi è un enorme potenziale vantaggio competitivo per il business.

LASCIA UN COMMENTO

Inserisci il tuo commento
Inserisci il tuo nome