La cooperazione incentrata sui valori è l’unica arma contro l’omologazione della distribuzione moderna

In Toscana per incontrare Turiddo Campaini, storico presidente e fondatore di Unicoop Firenze. Uno dei pionieri della gdo italiana. Con lui andiamo a scoprire la storia della distribuzione e il suo futuro (da Mark Up 320)

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Turiddo Campaini, per chi non lo conoscesse, è stato uno dei pilastri del retail italiano, sul versante cooperativistico; la sua bio è densa di successi, di scontri, di invenzioni. Per quarant’anni, anzi 41, è stato alla guida di Unicoop Firenze che ha cooperato a fondare; per lui si è cambiato lo statuto così da creare la figura del presidente onorario e, in questa veste, lo incontro a Scandicci nella sede della coop più blasonata (e ricca) del panorama cooperativo italiano. Di lui si dice che fu la “musa ispiratrice” di Falce e Carrello, scritto e firmato da Bernardo Caprotti, cui lo legò nel tempo, lunghi carteggi scambiati, stima e parecchia competizione. Pur non amando la finanza, entrò con una quota azionaria del 2,7% nella Banca Monte dei Paschi di Siena, sedendo dal 2003 nel consiglio d’amministrazione e diventandone in seguito vicepresidente per poi dimettersi alla fine del 2012. Nel 2010, ha pubblicato per Dalai Editore il libro intervista “Un’altra vita è possibile” in cui sono raccolti i risultati di alcune lunghe conversazioni con il giornalista Pietro Jozzelli. Il sottotitolo racconta molto del pensiero di Campaini: “Quando i valori dell’uomo condizionano le leggi del profitto”. Valore etico, identità culturale, parole che conquistano e che mi hanno portato fino a Scandicci. Il risultato è stata una lunghissima intervista di cui vi do, rammaricandomene, solo una sintesi nelle prossime pagine (la trovate però in versione completa sul nostro sito in video e podcast). Tornando a noi... la ragione scatenante è stato scoprire, nel corso delle interviste #alfemminile di Mark Up, che Turiddo Campaini è stato un grande scopritore di talenti alfemminile: Maura Latini, oggi Ad di Coop Italia, Letizia Cantini, Ad di Svicom, Daniela Mori, Ad di Unicoop Firenze, la donna che gli è succeduta alla guida. Quindi, la prima domanda non poteva altro che essere questa ....

Come ha fatto a far crescere tre donne che oggi sono agli apici delle loro carriere, in un ambiente così maschilista come quello della gdo?
Sono stato sempre profondamente convinto che la presenza femminile all’interno delle imprese costituisca un vero e proprio arricchimento per l’azienda stessa e ho sempre avuto questa convinzione per quanto io sia stato a lungo definito un maschilista, semplicemente perché non ho mai accettato gli eccessi del femminismo e all’interno di Unicoop Firenze non ho mai accettato neppure il concetto delle quote rosa; non che non lo capissi, lo capivo come elemento assolutamente indispensabile nella società, ma accettare le quote rosa in Unicoop Firenze voleva dire riconoscere la nostra incapacità di trovare altre soluzioni per arrivare allo stesso risultato. Non l’ho accettata e, nello stesso tempo, ho portato avanti un’attività che ci ha consentito poi effettivamente di realizzare obiettivi apprezzabili da questo punto di vista. Inoltre, se non avessi fatto questo mestiere, avrei fatto l’insegnante perché è l’attività di qualcuno che trasmette ad altri le proprie riflessioni, le proprie esperienze e conoscenze, e dà un contributo all’arricchimento degli altri senza perdere niente. Anzi, con la grande soddisfazione di vedere crescere le persone sulla base dell’attività e dell’aiuto che ha dato loro ed è la storia con le persone che lei ha citato.

Lei come ha saputo riconoscere il talento?
Credo che chi è all’apice di un’impresa si debba porre il problema di decidere a chi spetta un certo tipo di formazione, la crescita da un certo livello in su. Perché delegare è facile, ma fino a un certo livello si delega; da un certo punto in poi, si segue direttamente, ci si spende. Per conoscere una persona, bisogna guadagnarne la fiducia e per farlo, bisogna starle vicino: solo così si arriva a capirne l’indole e le aspirazioni e poi si vede quali possano essere le possibilità effettive all’interno dell’impresa e se collimano con il talento. Non basta spostare le persone a caso, in base ai bisogni, come fossero dei tappabuchi: non fa bene né alla persona né all’azienda. Un’ultima cosa fondamentale: bisogna voler bene alle persone, questa è la chiave di volta per conquistarne la fiducia. Chi è alla guida di un gruppo deve sapere conquistare la fiducia degli altri, perché non solo è difficile trovare talenti, ma è difficile anche acquisire soggetti di valore che vengono dall’esterno. Ed è uno dei problemi che ha il mondo della gdo. Oggi, si sceglie l’impresa, il management, l’imprenditore che dà affidamento, le questioni economiche arrivano in un secondo momento. Se l’impresa piace ma il vertice è inadeguato, probabile che il candidato non accetterà o, se lo farà, sarà solo per soldi. Detto questo, sarò pessimista ma penso che siamo in una fase di declino, in Europa e in Italia in modo particolare; una situazione che non può che aggravarsi nel futuro se non c’è un’inversione di tendenza. Bisogna prendere decisioni importanti e mi domando: gli imprenditori, i politici di oggi valgono quelli di ieri?

Cristina Lazzati direttrice di Gdoweek Mark Up e Turiddo Campaini Unicoop Firenze

Quando lei parla di spirito cooperativistico a cosa si riferisce? I valori che sono elencati nel suo ufficio sono piuttosto sfidanti per un’impresa: cooperazione, responsabilità, solidarietà, coerenza trasparenza, partecipazione... Come renderli anche economicamente rilevanti?
Credo, intanto, che si debba essere “convinti”: la seconda parte del Novecento è stato il periodo nel quale sono nate le imprese che hanno fatto storia nella distribuzione moderna in Europa e in Italia. E queste imprese sono nate perché qualcuno ha dato loro vita: Fournier con Carrefour, i fratelli Albrecht con Aldi, Caprotti con Esselunga. Queste persone ci credevano e, quando si crede in qualcosa, bisogna andare fino in fondo nel portare avanti il proprio convincimento.
Il rischio è che, per timore di non riuscire di rimanere a galla, si fa il sughero che galleggia, ma non produce mai nessun risultato. Nel nostro settore, la concorrenza si fa in un’area delimitata mentre nel settore industriale si fa tutto il mondo. Se non ci sono elementi evolutivi esterni, il successo dipende solo dall’impresa, e la concorrenza va un po’ a smorzarsi, nel senso che si determina una capogruppo e il resto si allinea. In Lombardia, Esselunga è la capogruppo, il resto è tutto allineato: si muove Esselunga, si muovono tutti, stando sempre stare attenti a non urtare troppo la suscettibilità di Esselunga. Da noi è successo qualcosa di diverso: non abbiamo mai tollerato che ci fosse qualcuno che facesse il capogruppo. Volevamo essere noi il capogruppo e di fatto lo siamo stati e così il tasso di inflazione e dei prezzi in Toscana anche in quegli anni è stato più basso di quello della Lombardia, a dimostrazione che non sempre più alta è la competizione più viene favorito il cittadino. I nostri valori ci aiutano a pensare al bene di tutti, cooperativa, lavoratori e comunità. Per fare questo, però, bisogna crederci. Quando siamo partiti, nel 1972, il patrimonio era quasi a zero, i negozi più grandi erano dai 200 ai 600 metri quadrati, quando Esselunga aveva i supermercati di oltre 1.000 metri. Il gruppo dirigente fatto di brave persone ma non di imprenditori... in sintesi avevamo l’acqua alla gola e un’unica alternativa: o si fallisce o si riesce veramente a diventare qualcosa d’importante; la semplice sopravvivenza non era contemplata e doveva risorgere una cooperativa, non un’impresa privata travestita da cooperativa, e così è stato.
Non ci si può nascondere troppo nel settore retail … un fantomatico mercato non si può inventare perché siamo sotto gli occhi di tutti; il settore finanziario non conta più di tanto, perché nella distribuzione ci si autofinanzia quasi interamente, funziona nei casi dell’immaterialità come Amazon.
Bisogna capire su cosa riusciamo ad ottenere dei risultati, dobbiamo fare le cose su cui sappiamo di essere il numero uno e puntare lì.

Oggi una cooperativa può ancora permettersi di agire come tale?
Oggi, l’unica strada è quella di voler essere cooperativa e sfuggire l’omologazione. Inoltre, bisogna evitare di essere confusi, uguali a tanti altri. La scelta fatta in Uk, anni fa, da molte insegne di puntare alla marca propria andava in questo senso: ciascuno sviluppò al massimo i prodotti a marchio proprio, sganciandosi dal confronto con la concorrenza. In Italia, si sta intraprendendo la stessa strada, ma nel frattempo i discount assomigliano sempre di più ai supermercati, gli ipermercati hanno perso la loro bussola e, così facendo, la concorrenza verticale tende a sparire a favore di un’omologazione che fa male a tutti.
La distribuzione moderna ha di fronte un consumatore responsabile e bisogna avere paura di tale consumatore perché capisce, si informa di quello che sta dietro certe politiche: essere e mantenersi cooperativa è la strada per sfuggire a questo pericolo. Infine, la dimensione conta, ma fino a un certo punto perché in Italia non siamo negli Stati Uniti, dove si chiude e si apre senza battere ciglio; abbiamo tempi di metabolizzazione più lunghi... Per questo io sono sempre stato contrario alle fusioni fra grandi cooperative: far bene in Toscana non significa far bene ovunque; la nostra forza è nel conoscere in territorio. Unicoop Firenze fa già fatica a tenere i contatti con i suoi soci, siamo già al limite come base territoriale; si può delegare sulla finanza, ma non quando si parla di persone, formazione, rapporti con le istituzioni … Bisogna essere pronti ad essere presenti nel luogo, ma anche poter intervenire centralmente a seconda delle necessità che si presentano. Non tutte le decisioni possono essere prese localmente e torniamo così all’assunzione di responsabilità: certi impegni possono e devono esser presi da chi ha il ruolo per poterle portare avanti.

Lei ha detto che si è sempre opposto all’ampliamento delle cooperative; eppure, in alcuni momenti ci si è aspettato che Unicoop Firenze potesse intervenire in aiuto ad altre cooperative...
La questione sta nel livello dei costi, e nella distribuzione in generale e, in particolare, in quella cooperative. Non è mai facile intervenire sui costi. Ho sempre sostenuto che un dirigente si giudica dai no che sa dire, non dai sì. Questa cooperativa è arrivata a questo punto perché abbiamo avuto il coraggio di affrontare decisioni difficili. In particolare, ricordo un periodo in cui abbiamo chiuso complessivamente un centinaio di punti di vendita e si sono chiusi, andando da loro, uno ad uno; facemmo l’assemblea in quei luoghi. Erano i negozi più piccoli, legati a una realtà abitativa molto limitata, quindi, persone che sentivano molto quella presenza; magari la cooperativa l’avevano costruita loro, in alcuni casi anche materialmente; eppure, siamo andati, ci siamo assunti la responsabilità. Potevamo non riuscirci, ma se non ce l’avessimo fatta, sarebbe stato meglio cambiare lavoro.
Se facciamo questi passi quando siamo convinti e non abbiamo alternative, consapevolmente, credendoci, sapendo che quella è la strada per tutelare la cooperativa e svilupparla, allora bisogna affrontare la situazione. Così come bisogna affrontare i temi con i sindacati. Noi di scontri ne abbiamo avuti: leggendo relazioni del passato, ho pensato che si sia battagliato con tutti, con la regione, con i sindacati, con l’amministrazione pubblica… se si vuole andare d’accordo con tutti, non si può.
Bisogna partire da un presupposto: se io rappresento la cooperativa e vado a discutere con il sindaco, devo esser certo che la soluzione che gli propongo vada incontro agli interessi generali e, se sono certo di questo, la battaglia la porto fino in fondo; se non ho questo convincimento, certo mi sento debole e rischio di perdere la battaglia perché non ho e non avrò l’appoggio della gente. Con il sindaco di Firenze si intraprese una battaglia che ci portò a un referendum in cui venne coinvolta tutta la città: nel mondo non era mai successo che si facesse un referendum per aprire un punto di vendita. Ci fu solo un caso dopo di noi, in California con Walmart che, però, allora, perse.
Una vittoria come la nostra ci dice che genere di credibilità abbiamo presso la gente. L’affidabilità con cui ti presenti, significa coerenza e c’è tanto bisogno di coerenza. Tanto.

Nel retail, e non solo, vince chi ha le risorse migliori, le donne e gli uomini più capaci. L’egoismo personale, d’impresa è limitativo allo sviluppo dell’impresa stessa

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