La sfida al caporalato si gioca tutta in filiera

I risultati di repressione sulla spinta dei controlli stabiliti dalla legge 199/2016 sono positivi, ma non bastano. Dai protagonisti del sistema agroalimentare soluzioni in linea con posizionamenti di qualità (da Mark Up n. 273)

La piaga del caporalato, che torna di stretta attualità ogni estate, non può essere affrontata agendo su un solo ambito. Il quadro normativo, l’impegno della distribuzione, le certificazioni dei produttori, i rapporti con i fornitori: da un giro d’orizzonte tra i protagonisti del mercato emerge chiaramente la necessità di lavorare sulle filiere, combinando la repressione dei comportamenti scorretti con la promozione di quelli virtuosi, anche coinvolgendo i consumatori attraverso campagne di sensibilizzazione sugli acquisti. Ma, soprattutto, occorre resistere alla tentazione di trovare il colpevole unico -che non c’è-, come non esiste l’anello di filiera che da solo può sistemare le cose per il futuro.

Nelle scorse settimane, complice il momentum che vede la distribuzione moderna troppo spesso nelle vesti di un utile terminale di responsabilità da rifilare, le letture semplicistiche sono tornate di moda. Nelle prossime pagine il contributo di Mark Up per riportare il baricentro dell’attenzione a un impegno condiviso, nei confronti di un fenomeno che mina alla radice la credibilità di qualsiasi progetto alimentare di qualità.

Secondo l’ultimo rapporto Agromafie e caporalato sono circa 100mila i lavoratori irregolari impiegati nel settore agricolo. Eppure il varo di una normativa ad hoc per contrastare questa piaga era stato accompagnato da grande enfasi a livello politico. Con la legge n. 199 del 2016 si è fatto un balzo in avanti nella repressione dello sfruttamento dei lavoratori, prevedendo anche una responsabilità penale in capo al datore di lavoro che “utilizza, assume o impiega manodopera”, anche (ma non necessariamente) mediante l’intermediazione del caporale. Così sono stati potenziati gli strumenti giuridici di contrasto, consentendo la condanna degli utenti finali di questa prassi criminale. In questo modo, nelle intenzioni del legislatore, si sarebbe dovuta ridurre la domanda di lavoratori-schiavi.

I risultati ci sono stati, come risulta dall’ultimo rapporto annuale sull’attività di vigilanza in materia di lavoro e legislazione sociale curato dall’Ispettorato nazionale del lavoro. Nel corso del 2017, le ispezioni hanno portato a individuare 5.222 lavoratori irregolari e 387 vittime di sfruttamento in agricoltura. A livello di repressione, sono stati emessi 360 provvedimenti di sospensione di attività imprenditoriali, di cui 312 successivamente revocati a seguito di regolarizzazione.

Le pratiche di sfruttamento dei caporali vanno dalla mancata applicazione dei contratti di lavoro (un salario di poche decine di euro al giorno, orari tra le 8 e le 12 ore di lavoro, violenza, ricatti e sottrazione dei documenti) all’imposizione di un alloggio e dei trasporti presso persone collegate ai caporali, con tariffe molto alte a carico dei lavoratori.

“Il tema dei controlli pubblici è cruciale -dice Giuseppe Torrente, responsabile dell’industria conserviera La Torrente- Spesso si sente criminalizzare l’intero settore colpendo allo stesso modo chi mette in campo comportamenti scorretti e chi si batte per contrastarli. L’esperienza concreta indica che spesso le irregolarità nascono dalla filiera di soggetti coinvolti nel reclutamento della manodopera”.

“Non servono nuove leggi, quello che manca sono i controlli”, è l’analisi del vicepremier e ministro del Lavoro Luigi Di Maio in merito alla piaga del caporalato. “Lo Stato non è attrezzato per controllare e per questo faremo un concorso straordinario per nuovi ispettori del lavoro”.

Dunque occorrono nuove risorse per contrastare gli abusi, ma non è detto che questo basti. “L’Italia è il Paese in cui il pomodoro è più caro, in quanto di maggiore qualità, ma fissare un prezzo unico dignitoso non è possibile a fronte dell’eterogeneità delle situazioni e delle varianti di prodotto”, aggiunge Torrente.

Pasquale Petti, quarta generazione al comando dell’azienda che porta il cognome di famiglia, lancia un rilievo verso il mondo della distribuzione. “Pressano sempre più i produttori in modo da massimizzare i margini, senza riversare tutti i benefici ai consumatori in termini di costo finale del prodotto”. In media, ricorda Petti, “Oggi le industrie ricevono lo stesso compenso per prodotto lavorato del 2006, come se in dodici anni non fosse successo nulla: niente inflazione, rialzo delle commodity e dei costi del packaging. La conseguenza è che molte aziende finiscono con il risparmiare sui costi sostenuti per la materia prima rivolgendosi altrove”. In questo scenario, ci rimette il mondo agricolo che perde il riferimento primario dei trasformatori. Fra chi mantiene lo sguardo al prodotto italiano molti faticano a reggere la baracca. “Per quanto ci riguarda abbiamo scelto di crescere nella produzione a marchio Petti, che oggi vale il 60% -sottolinea il manager-. Fossimo rimasti a operare solo per le private label, a questi prezzi avremmo già chiuso gli stabilimenti”. Petti sta accelerando in particolare sulla strada dell’internazionalizzazione. “I Paesi nordici intercettano una quota importante della nostra linea bio, segmento che ha raggiunto ormai il 30% della nostra produzione e contiamo di far crescere ancora, dato che la contrattazione su questo versante è rimasta umana”. Alla Regione Toscana l’imprenditore chiede l’inserimento del pomodoro da industria nei Piani di finanziamento (come per vite e ulivi), primo passo per riportare gli agricoltori regionali a questa coltura. L’invito alla gdo è invece di testimonianza. “Tocca a loro tutelare i fornitori. Auspico un appello da parte di una o più delle grandi catene nazionali per invitare anche il legislatore a intervenire, per evitare che le aziende di conserve continuino a chiudere i battenti. Parliamo di un mercato importante, di circa 600 milioni di euro di fatturato ogni anno”.

Eurospin, spesso chiamata in causa per il ricorso alle aste online, respinge le accuse appellandosi all’interesse dei clienti. “Le aste online sono uno strumento moderno, efficace per dare al consumatore i prezzi competitivi che chiede, insieme alla qualità: e il nostro mestiere di distributori è soddisfare queste richieste -spiega in una nota-. Le aste online possono anche mettere in difficoltà alcuni operatori, ma noi dobbiamo fare l’interesse del consumatore. Per questo usiamo questo approccio soprattutto per quei prodotti commodity che non hanno caratteri di innovazione e di distintività: perché c’è differenza tra i diversi pelati e noi ne teniamo conto. Le aste funzionano per i prodotti base, non certo per articoli semilavorati con un loro valore aggiunto intrinseco e una qualità che i nostri clienti vogliono ritrovare sempre nei nostri punti di vendita. E questo ci porta a instaurare rapporti continuativi e duraturi con molti produttori partner”.

Per Pier Paolo Rosetti, direttore generale di Conserve Italia, la soluzione va trovata agendo sul versante della filiera. “Per noi è prioritario valorizzare al meglio la produzione dei nostri 14mila soci agricoltori tramite marchi leader dell’agroalimentare italiano come Cirio, Valfrutta, Yoga e Derby Blue. È questa la mission di filiera integrata del nostro consorzio cooperativo, il motivo per cui siamo nati gestendo tutte le fasi del processo produttivo, dalla coltivazione alla commercializzazione passando per la lavorazione in industria”. In oltre 40 anni di attività, aggiunge Rosetti: “La cooperazione ha dimostrato di essere lo strumento più adeguato per tutelare la parte più debole del processo produttivo, ossia l’agricoltura. Per combattere queste distorsioni occorre coinvolgere i consumatori, che vanno educati a comprendere che qualità e legalità dei prodotti richiedono un giusto prezzo che non intacca il potere d’acquisto”. Per quanto riguarda i rapporti con i soci produttori, Conserve Italia sottoscrive impegni di conferimento all’inizio delle stagioni di raccolta della frutta e verdura da trasformare, “con prezzi che assicurano la sostenibilità economica delle imprese agricole e condizioni che non svantaggiano i produttori, con l’unico obiettivo di garantire reddito reale e non teorico agli agricoltori, nel rispetto degli impegni stabiliti nei pagamenti”. Quanto al futuro, Rosetti indica due linee d’azione centrali per i prossimi mesi: “La promozione tra tutte le cooperative socie e le aziende agricole della filiera dell’adesione alla Rete del Lavoro Agricolo di Qualità, alla quale Conserve Italia ha aderito di recente. In secondo luogo, nel settore del pomodoro, negli ultimi anni Conserve Italia si è impegnata a diffondere tra le aziende che conferiscono materia prima sistemi di raccolta meccanica, incentivando così i soci produttori ad investire nell’innovazione tecnologica”.

Anche in questo caso arriva un appello al mondo del retail. “Chiediamo una corretta ed equa valorizzazione delle produzioni agricole, che necessariamente deve tenere conto dell’andamento delle campagne stagionali, inevitabilmente influenzate da fattori esogeni che non possono essere governati, come ad esempio i problemi meteorologici”. Non manca un appello alle istituzioni. “Servono controlli più efficaci sulla corretta applicazione delle leggi, in particolare per quello che riguarda l’avviamento al lavoro e il rispetto della dignità delle persone. Spetta alle istituzioni preposte vigilare e sanzionare chi distorce il mercato con comportamenti scorretti”.

In quest’ottica Mutti ha messo a punto il position paper “Sostenere condizioni di lavoro eque nell’industria italiana del pomodoro - Il nostro impegno e un invito all’azione” per condividere l’approccio e le iniziative intraprese per garantire responsabilità e rispetto dei diritti umani e dei lavoratori in tutte le fasi di attività. La premessa dell’azienda parmigiana è che il fenomeno del caporalato è in forte diminuzione negli ultimi anni, per quanto non ancora del tutto debellato. “Le maggiori minacce all’attuazione dei diritti umani e all’offerta di condizioni di lavoro eque sono a monte della catena di approvvigionamento, a livello di aziende agricole e connessioni tra ciascun attore e i suoi fornitori e clienti diretti -spiegano da Mutti-. Così, anni fa abbiamo volontariamente adottato un codice etico per formalizzare e rendere pubbliche le regole e le norme che hanno sempre sotteso le nostre attività e decisioni. Il nostro obiettivo non era solo di rafforzare la cultura organizzativa e il senso di appartenenza all’azienda, ma anche di rivelare agli stakeholder esterni chi siamo e quali valori ci guidano quotidianamente”.

Il documento è stato sviluppato su sei principi fondamentali: visione di lungo termine, standard di alta qualità, semplicità, attenzione per l’ambiente, trasparenza e rispetto per tutte le persone.

Concretamente a cosa hanno portato questi principi? In sede di raccolta, Mutti fa firmare agli agricoltori l’impegno ad adottare la raccolta meccanica ed evitare quella manuale da parte di lavoratori stagionali non qualificati. “A questo scopo, abbiamo sviluppato nuove tecnologie per la raccolta meccanica, anche per le varietà di pomodori non ancora raccoglibili in modo meccanico. Per costruire relazioni più forti con i nostri agricoltori e consentire loro di investire sul continuo miglioramento delle loro aziende paghiamo per i nostri pomodori un prezzo in media del 4-6% più alto del prezzo considerato standard nel settore. A questo, aggiungiamo un ulteriore premio del 4-6% per ricompensare i coltivatori i cui prodotti raggiungono un livello di eccellenza superiore a quello richiesto”, aggiungono. In questa strategia si inquadra anche la richiesta agli agricoltori di adottare un modello organizzativo conforme ai requisiti sociali ed etici. “Anche se stiamo premiando i coltivatori che adottano questo processo sulla base di certificazioni di terze parti, la piena adozione richiederà del tempo”, chiariscono da Mutti.

Tra le pratiche commerciali accusate di alimentare il caporalato vi sono le aste online al doppio ribasso, utilizzate da alcune catene.

“La premessa da fare è che il fenomeno deprecabile del caporalato c’è sempre stato e va contrasto inasprendo e rendendo effettive le pene a carico dei trasgressori -commenta Giorgio Santambrogio, Ad del gruppo VéGé-. Per farlo è necessario incrementare i controlli”. Parlando come presidente di Adm, Santambrogio ricorda anche che le aziende aderenti a Federdistribuzione hanno firmato un’intesa con il Ministro delle Politiche agricole nel quale si impegnano a non usare le aste al doppio ribasso. “Non si tratta di rinnegare l’importanza di trattative anche serrate, ma di fissarne dei limiti -spiega-. Inoltre, è stato preso l’impegno a promuovere verso le aziende fornitrici la loro iscrizione alla Rete del Lavoro Agricolo di Qualità, elenco promosso da Inps, Ministero del Lavoro e Mipaaf, finalizzato a selezionare le imprese agricole che si distinguono per il rispetto delle norme in materia di lavoro, legislazione sociale, imposte sui redditi e sul valore aggiunto”. Un capitolo dell’intesa riguarda anche gli aspetti della stagionalità e dell’origine: “I firmatari hanno assunto l’impegno a valorizzare nei propri punti di vendita la stagionalità e la provenienza dei prodotti agricoli e alimentari -precisa Santambrogio-. Se la questione non si affronta e risolve a livello di filiera, non ne usciamo”.

Di fatto, molti retailer si muovono in proprio come Esselunga che ha da tempo adottato un proprio codice etico che impone il rispetto dei diritti umani fondamentali e la dignità delle persone. “Oltre a impegnarci costantemente nella prevenzione di ogni forma di sfruttamento, chiediamo ai nostri fornitori il rispetto di questi principi, pena l’esclusione dalla nostra rete commerciale”, spiegano dall’azienda, che precisa di non aver mai fatto ricorso alla pratica delle aste elettroniche per prodotti agricoli e agroalimentari. “In coerenza con questi principi, a settembre 2017 abbiamo sottoscritto un protocollo di intesa con il ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali per favorire un mercato più trasparente ed evitare effetti distorsivi nei rapporti di filiera”, sottolineano.

Netto anche l’impegno assunto da Conad, come chiarisce il direttore commerciale Francesco Avanzini: “Caporalato e aste al ribasso sono due fenomeni distinti, entrambi deprecabili, che interessano in modo diverso la gdo. Cercare i responsabili del caporalato al di fuori del mondo agricolo significa giustificare implicitamente gli imprenditori della terra che ricorrono all’illegalità, distogliendo l’obiettivo dal vero problema, che nasce sui campi e riguarda direttamente il comparto agricolo”. Detto questo, Conad fa la propria parte nel contribuire a contrastare entrambi i fenomeni. “Il nostro gruppo non partecipa alle aste al ribasso. Attraverso il nostro organo di rappresentanza sindacale Ancd Conad nel 2017 abbiamo firmato con Federdistribuzione e il ministero delle Politiche Agricole e Forestali un patto d’impegno per promuovere un codice etico lungo la filiera agroalimentare”. Nei confronti dei fornitori di Mdd, inclusi quelli del settore agroalimentare, Conad adotta inoltre procedure di selezione molto stringenti. Il processo prevede che le aziende forniscano il proprio rating di legalità: a quelle che rientrano in determinate categorie a rischio -come il pomodoro- viene chiesto di sottoporsi ad un ulteriore audit di qualità. “Questi audit etico-sociali sono strutturati sulla base di criteri derivanti da standard internazionali, come quelli dell’International Labour Organisation -precisa Avanzini-. Chi non supera questa verifica, non può diventare fornitore Conad fino a che non ha dimostrato di avere superato le criticità riscontrate. Per i propri fornitori Conad prevede anche capitolati molto stringenti sui temi del lavoro sia chiedendo alle imprese di dimostrare che nell’organizzazione vengano rispettate le norme vigenti in materia di diritto del lavoro sia effettuando periodici e rigidi controlli”. La valorizzazione della filiera nell’ottica di sicurezza e trasparenza è tra i tre pilastri della strategia “Transizione Alimentare” di Carrefour. “La tracciabilità della filiera è da sempre il cuore dell’impegno etico e di prodotto di Carrefour Italia verso i propri clienti: dal 2017, con la Filiera Qualità Carrefour, oltre 4mila produzioni sono state mappate e garantite a livello di origine e qualità”, spiega una nota della catena francese, che ricorda di essere stata la prima ad applicare in Italia la tecnologia blockchain, con la mappatura con questa tecnologia del pollo a marchio Filiera Qualità Carrefour, allevato all’aperto e senza antibiotici.

"La priorità è comunicare ai consumatori la nostra diversità"

Una diversità che porta benefici in termini di salute, benessere, qualità, ambiente, visione e...costa un pò di più. Lo spiega Marco Pedroni, presidente di Coop Italia

“Non accetto gli attacchi delle ultime settimane rivolti in maniera generalizzata alla gdo come principio di tutti mali sui temi del lavoro nero e del caporalato. Noi di Coop abbiamo valori che rivendichiamo con orgoglio, che ci differenziano da tutti i nostri competitor”. Marco Pedroni, presidente di Coop Italia, rivendica la diversità come principio fondante della sua organizzazione, ricordando che scelte come Coop Origine, Buoni & Giusti, l’eliminazione di antibiotici e olio di palma, l’impegno per la riduzione delle plastiche possono avere un impatto negativo sul prezzo finale, che viene annullato se si ha la capacità di comunicare questi valori ai consumatori.
“La verità è che come Coop siamo raccontati poco. Parliamo sempre dei bilanci, ma c’è un pezzo rilevante della nostra storia e natura che rimane ancora poco conosciuto -commenta-. Dobbiamo impegnarci di più nel condividere i principi del mondo cooperativo e nel comunicare la nostra diversità. Una diversità che porta benefici, in termini di qualità, salute, benessere, ambiente, ma anche a livello di conti, perchè il nostro obiettivo numero uno è soddisfare i soci, tenendo in equilibrio i conti. Abbiamo il vincolo del bilancio, non l’obiettivo del bilancio”.
Sul tema del caporalato e del lavoro nero, da tempo Coop è impegnata con l’operazione Buoni e Giusti, campagna con la quale viene promossa l’eticità delle filiere ortofrutticole a rischio. “Non ci limitiamo a quanto previsto dalla legge, né cediamo alla tentazione di dire che le cause dei problemi sono altrove -ricorda-. Ci impegniamo, in prima persona, per quanto nelle nostre possibilità a contrastare il caporalato. Lo facciamo secondo il nostro dna, in anticipo sui tempi e con vincoli maggiori.
Per queste ragioni non abbiamo partecipato alla firma di un accordo con gli altri operatori presso il ministero dell’Agricoltura. Intendiamoci: le intenzioni di quel documento vanno nella giusta direzione, ma noi siamo ben più avanti. Sta agli altri coprire il gap esistente”.
Questo non significa che Coop vuole isolarsi. “Non ci smarchiamo. Quando c’è sintonia, aderiamo ad operazioni insieme ad altri retailer; in altri casi, andiamo avanti da soli”. Le 7.200 aziende agricole delle filiere Mdd Coop sono invitate ad aderire alla Rete del Lavoro Agricolo di Qualità. Dal lancio della campagna sono state 13 le prime filiere sotto i riflettori, oltre 500 le aziende sottoposte ad audit e 11 quelle espulse negli ultimi 7 anni.
Come il retail può uscire in maniera positiva da questo attacco? Serve un tavolo della distribuzione? “Se l’idea è portare qualcuno a processo, non ha alcun senso -chiarisce Pedroni-: non è un problema di distribuzione, ma di filiera. Tutti devono essere consapevoli che la gdo non può diventare l’unico controllore. Ci impegniamo e siamo contenti che questa capacità ci venga riconosciuta dai consumatori, ma occorre uno sforzo condiviso. La legge non può fare tutto, se manca una sensibilità diffusa.
Ognuno deve fare (e bene) il suo mestiere. Libertà e autonomia sono principi cardine del mercato e vanno salvaguardati. Ma è ruolo delle istituzioni intervenire quando si creano distorsioni”.

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