Dal 2010 la mia società si occupa di export verso gli Stati Uniti d’America. Ho raccolto
una tradizione familiare che da tre generazioni lavora nel food service e lo fa per l’appunto in Costiera Amalfitana e Sorrentina. Così è stata la mia partenza, ma poi in otto anni con una mia struttura ho creato una rete vendita in Usa concreta e consolidata, e se penso all’inizio, ho sempre più coscienza di quanto il mercato sia in costante e continua evoluzione.
Questa percezione deriva anche dalle aziende che sono riuscito a mettere insieme come
rappresentanza, penso a Motta, D’Amico, Casar, Fattorie Osella, Mauri, Sanguedolce, Gruppo VèGè, per citarne alcune. Aziende che hanno dato lustro all’Italia e continuano a farlo, e che hanno capito l’esigenza sempre più attuale del vendere oltreconfine, e lavorare alla costituzione di più centri di ricavo, in più mercati possibili. In questo contesto, tuttavia, quando sento parlare di “vendere in Usa”, intendendo con questa espressione tutti gli Stati Uniti d’America, rabbrividisco sempre un po’. Mi basta solo pensare alla fatica che faccio a essere presente in solo 9 dei 50 Stati americani: credetemi un impegno costante.
Il 2018 per la mia struttura, sarà l’anno del Texas. Ho speso un po’ di tempo ed un po’
di attenzione verso questo Stato, in continua crescita e, soprattutto, in continua apertura al cibo italiano. La forte presenza italiana, e probabilmente la crescita esponenziale delle sue “City”, penso a Houston, Dallas, San Antonio, Austin, han fatto sì, che l’apertura di ristorazione italiana di qualità e di isole etniche all’interno di catene di supermercati sia sempre più marcata. Basti ricordare che in Texas la popolazione Italiana e quindi italo americana, alla seconda e terza generazione, costituisce il sesto gruppo etnico di tutto lo Stato. Se si somma la particolare predisposizione degli italiani a fare ristorazione tricolore ne consegue quindi una forte presenza della cucina Italiana che giustifica a sua volta una offerta significativa dal punto di vista del trade. Se sono, infatti, 250 i ristoranti italiani censiti nel contempo sono numerose le catene retail (come Heb, Central Market, Whole Foods) che dedicano ampi spazi a cibi di nicchia italiani quali: pasta fresca, formaggi, insaccati, pasticceria tipica. Tutto questo costituisce la giusta base di partenza per lo sviluppo della nostra food industry, che infatti nei primi mesi di quest’anno cresceva nel Texas più del 5%. Del resto sono fermamente convinto che se l’economia americana, anche nei suoi momenti peggiori (vedi 2008), reagisce con notevole forza lo si deve soprattutto alla sua capacità di far emergere da ogni suo stato federato, ciò che “distingue” piuttosto che da ciò che “divide”. Sono arrivato in America appena ventenne, con il famoso sogno americano in tasca. Ora, sebbene anche gli americani possano avere qualche difetto, continuo a pensare a quanto possano davvero costituire una grande opportunità, per chi come me, ha creduto nell’industria del cibo, per chi crede ancora nel senso e nel principio della reputazione (un valore fortemente sentito in Usa) e per chi ha tanta voglia di fare e mettersi in gioco.
Per altro è evidente che gli Usa sono grandi come estensione e differenze fra stato e stato. Vanno quindi avvicinati con professionalità, attenzione, sensibilità e intelligenza. Senza però dimenticare la consapevolezza, che come ogni mercato, anche quello americano non regala niente, cresce pian piano e, inoltre, non consente di improvvisare nulla: tutto è frutto di lavoro, tempo, pazienza, relazioni e, infine, permettetemi: tanta, ma davvero tanta, passione.
L’America è sempre una grande opportunità
Gli opinionisti di Mark Up (da Mark Up n. 265)