Le regole Agcom spingeranno a un influencer marketing meno pressappochista?

Mentre il caso Balocco-Ferragni continua ad avere una coda lunga (anzi, lunghissima), i brand si stanno (forse) risvegliando sul fronte strategico

La certezza è che il caso Balocco-Ferragni ha puntato i riflettori, oltre che su i suoi protagonisti, su temi importanti per il marketing, non solo rispetto ad etica e csr, ma rispetto alla qualità delle strategie di brand e aziende. Il discorso è un po' lo stesso dei social: per molto tempo le aziende hanno pensato (e alcune lo pensano ancora), che Facebook, Instagram e affini fossero una sorta di "extra" da far gestire a tempo perso al professionista di altre materie, magari chiedendogli risultati rigorosamente in organico, ovvero a zero budget. La corsa alle collaborazioni con gli influencer è stata molto simile: tutti a spendere fior di quattrini per iniziative spesso squilibrate nei rapporti di forza e scentrate rispetto all'immagine del brand, ma anche rispetto a ciò che è reale ritorno al netto dei grandi costi sostenuti. Una febbre da facile popolarità (e qui ci starebbe una bella parentesi sulla differenza tra popolarità e influenza) basata sulle cosiddette vanity metrics che rendono però facile giustificare i progetti a chi vuole numeri, più o meno significativi, nel breve termine.

Nuove regole...

Se è vero che i "vip nativi online" sono in un certo senso al pari del programma televisivo che con la rete da traino punta alla massa, è altrettanto vero che quest'ultimo ha di base un format molto più standard e prevedibile, un contenuto portante e ripetitivo che tendenzialmente "non farà i capricci". Sono diversi i casi dimostranti, invece, come per il medium influencer non valgano certamente le stesse regole. In questo contesto, comunque, sono arrivate finalmente alcune linee guida Agcom che coinvolgono esclusivamente (e qui starebbe un'altra parentesi) "gli influencer operanti in Italia che raggiungono, tra l’altro, almeno un milione di follower sulle varie piattaforme o social media su cui operano e hanno superato su almeno una piattaforma o social media un valore di engagement rate medio pari o superiore al 2% (ossia, che hanno suscitato reazioni da parte degli utenti, tramite commenti o like, in almeno il 2% dei contenuti pubblicati)". In caso di contenuti con inserimento di prodotti, si legge nel relativo documento, "gli influencer sono tenuti a riportare una scritta che evidenzi la natura pubblicitaria del contenuto in modo prontamente e immediatamente riconoscibile".

...nuove strategie?

Al netto dell'eventuale dibattito sulle indicazioni stesse, si tratta indubbiamente di un primo passo che spinge, o dovrebbe spingere ulteriormente, brand e aziende a maneggiare la materia con maggior cura e visione strategica. Secondo la tech company Skeepers, che si occupa di esperienze d'acquisto attraverso gli ugc, "è da escludere un dietrofront del mercato dell’influencer marketing, che ha generato oltre i 300 milioni di fatturato nel 2023 e che non sembra volersi arrestare", ma si virerà ulteriormente verso nano e micro-influencer (semplificando: profili sotto i 100mila follower), che offrono spesso una fanbase più autentica e coinvolta, riportando anche più "equilibrio nella forza".
In un post pubblicato su LinkedIn Daniele Cobianchi, Ceo di McCann Worldgroup Italy e presidente Ipg Mediabrands Italy, scrive: "Leggo che molte aziende stanno annullando gli accordi presi con Chiara Ferragni per timore di avere impatti negativi a livello di brand equity. Vorrei ricordare che la brand equity si costruisce con strategie complesse di medio lungo periodo e che la scelta di delegare a una influencer la propria narrazione di marca non ha mai generato equity per i brand. Chi sceglie una influencer così affermata non segue nessuna strategia ma affitta per un weekend, e a caro prezzo, un'audience che ha rinunciato, o non è riuscito, ad avvicinare nel tempo. Pertanto non si può temere che venga danneggiato ciò che non è stato costruito".

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