Mark Up 20 anni: intervista esclusiva a Pietro Malaspina

"Omnichannel, il futuro dei centri commerciali"

Dott. Malaspina, quale direzione segue l'industria dei centri commerciali nell’evoluzione sociale e urbanistica?
Anche questa industria ha sofferto la crisi. I centri commerciali sono sempre stati visti quali ‘oggetti’ calati dall'alto come Ufo, estranei alla nostra cultura. Sono tutte sciocchezze. Il commercio ha sempre operato in aggregazioni spontanee o guidate: i mercati traianei che cos'erano se non un centro commerciale ante litteram? Solo nel XIX secolo comincia ad affermarsi il  fenomeno dei centri storici organizzati, ma il commercio è sempre stato un’attività costruita e guidata nel e dal contesto urbanistico e sociale che ne determina spesso forma architettonica, disposizione e layout. Con il cambiamento demografico sono nati gli shopping centre extra-urbani, conseguenza della dislocazione dei centri abitati all’esterno delle città (vedi il fenomeno dell'urban sprawl), con aggregati commerciali nati per rispondere all’esplosione della mobilità individuale che ha creato le condizioni per realizzare quartieri residenziali esterni: il commercio ha seguito la forma della città, si è adeguato ai fenomeni urbanistici, dei quali non è stato il driver originario.
Siamo oggi in una fase di rivalutazione delle città, la residenza – e al suo seguito il commercio - ritornano nei centri storici e nelle vie urbane: è un fenomeno opposto alla corsa verso le periferie e i piccoli centri, quando la qualità di vita delle città era scesa: la “gentrification” dei vecchi quartieri popolari centrali ne è uno dei segni più visibili. Il ritorno ai centri storici causa l’espulsione delle classi meno abbienti dai centri urbani sostituite dai ceti più benestanti: questo fenomeno innalza la qualità del commercio e rivaluta il trasporto pubblico. È un fenomeno sociologico e culturale: l’ambiente urbano e la qualità delle relazioni umane rendono più interessante la città, e spiegano anche la tendenza complessiva all’incremento dell’urbanizzazione e della concentrazione della popolazione nelle metropoli.

Ci sono differenze tra i centri commerciali e l’immobiliare non-retail?
I centri commerciali saranno sempre più luoghi di frequentazione e di esperienza. Questa tendenza si colloca nel più ampio fenomeno dei consumi “aspirazionali”, tipici delle società evolute (ma non solo) nelle quali il meccanismo psicologico alla base degli acquisti e quindi dei consumi è la gratificazione.
Nel concepire e realizzare un centro commerciale non si può prescindere da questo scenario. In altre operazioni immobiliari l’interesse per l’attività svolta dagli utilizzatori finali (sia di residenze che di uffici) è minimo, mentre nella concezione di uno shopping center devo conoscere a fondo e anticipare le esigenze degli operatori che non sono solo conduttori, ma partner. La filosofia del centro commerciale è molto semplice: non esiste un modello a priori. Tutti gli sviluppatori professionali le risponderanno così: non c’è formato prestabilito. Il centro commerciale è un prodotto immobiliare complesso che risponde alle esigenze del mercato, servendo al meglio la domanda inevasa, e persino quella inespressa.

Magneti: con o senza ipermercato?
L’ipermercato è necessario quando voglio dare un’offerta di procurement, non di shopping, cioè di acquisto funzionale, di base. Il modello della galleria ancorata all’ipermercato, di matrice francese, si è affermato perché in Italia è stata la Gdo a sviluppare i primi centri commerciali.

Spesso il commercio di città accusa i centri commerciali.
Il commercio deve piangere se stesso come causa dei suoi problemi. Se lei passeggia per strade come Corso Buenos Aires a Milano vedrà che il 90% dell’offerta è costituito da insegne e marchi di catene che si trovano nei centri commerciali. Perché? Perché l’efficienza delle catene è superiore e quindi si possono permettere affitti più alti. In Italia, a parte la ristorazione, il commercio non genera più marchi e format nuovi. Gli stessi sviluppatori dei centri commerciali vorrebbero disporre di una scelta più ampia e variegata. Ma il mazzo contiene le solite 52 carte.

E sulla scomparsa del commercio multi-brand?
Il commercio multi-brand sta scomparendo, ormai sono quasi tutti single-brand, negozi che vendono prodotti di un solo marchio. La ragione è il fenomeno diffuso della disintermediazione: voglio lavorare direttamente con l’utilizzatore finale del mio prodotto, per catturare tutto il margine realizzato dalla filiera; quindi trasformo il mio marchio in un brand riconoscibile; una delle prime esigenze è essere riconosciuto dall’acquirente e quindi vado sulle strade a farmi riconoscere.
I brand nei centri commerciali sono in grande prevalenza production brand (producono e vendono con franchising o rete diretta), quindi si tratta un processo evolutivo del commercio, se non dell’intero ciclo economico.

Cosa vede nel futuro? Quali sono le grandi sfide?
Più dell’e-commerce, che è una delle possibili modalità di vendita, il futuro è l’omnichannel: io vendo, punto; come e dove è del tutto irrilevante: attraverso negozi, oppure on line, ma comunque contemporaneamente: la mia piattaforma deve essere priva di barriere, il mio cliente deve vedere online e comprare in negozio, e viceversa. E questo vale anche per i centri commerciali: penso a Qwarz in Francia che affitta agli e-tailer degli schermi interattivi, che altro non sono che il terminale “fisico” di un retailer virtuale.
In questo senso vedo molto avvantaggiati i brick&mortar perché hanno un’immagine e una storia consolidata, in grado di offrire più sicurezza ai clienti. E con i negozi fisici hai più opportunità di sperimentare formule intermedie come il click&collect. Anche Amazon, l’everything store, che è fondamentalmente un’operazione logistica, dimostra come l’e-commerce sia pesantemente fisico visto che hanno giganteschi depositi e magazzini di transito.

Breve flash back nel passato. Standa è stata per lei una nave scuola.
Ho cominciato nel giugno 1970. Standa era già Montedison. Mi assunse il presidente e fondatore Italo Monzino. Poi andai in Rinascente dal 1991 al 1997. Sono entrato quando c’era Giuseppe Tramontana, rimasi con la gestione di Giovanni Cobolli Gigli e ne uscii poco dopo la fusione con Auchan per passare in Gs dove sono rimasto circa 3 anni: ero responsabile della gestione degli immobili (ad di Atena e responsabile sviluppo e patrimonio di Gs ed Euromercato); in quel periodo ho vissuto l’acquisizione di Continente Italia (Garosci) e dei suoi centri commerciali, e il successivo passaggio a Carrefour di Continente. Ho avuto modo di conoscere Roberto Zoia, oggi uno dei top manager di Igd, con cui abbiamo fatto un breve percorso insieme e stabilito una solida amicizia, e sono uscito nel 2000, a 62 anni.

E a 62 anni si rimette in gioco…
Esatto. Avevo firmato un contratto piuttosto vantaggioso per un ipermercato Carrefour nel centro commerciale di Marcianise, il futuro Centro Campania. Ero già vice-presidente esecutivo del Cncc (Consilio nazionale dei centri commerciali): in quel periodo conobbi Alvaro Portela (ex Ceo mondiale di Sonae Sierra, ndr), e in un convegno Icsc (International Council of Shopping Centres) gli chiesi se l’Italia rientrasse nella sfera d’interesse Sonae, indicandogli l'opportunità di Marcianise. Portela mi rispose che già da tempo Sonae Sierra accarezzava l’idea di entrare nel nostro paese e che stava proprio valutando quella operazione. Allora il coordinatore per lo sviluppo europeo di Sonae era Adrian Ford, che mi propose di lavorare per Sonae Sierra. Accettai. Era il novembre del 2000.

Gettando una sguardo retrospettivo sulla sua vita professionale, c'è una scelta di cui si pente?
L’unica cosa che rimpiango della mia vita professionale è di non aver fatto l’imprenditore. Mi è mancato il coraggio. Ma in fondo un manager che non ha capitale mette in gioco se stesso. Anche entrare in Sonae Sierra è stata una scommessa. L’ultima esperienza è sempre la più importante. Ogni passaggio di lavoro è stato una crescita professionale: capire meglio le cose è la mia vera passione e la curiosità è sempre stata la vera motivazione del mio percorso, professionale e umano.

Per quale percorso professionale alternativo avrebbe optato, se avesse potuto ricominciare tutto daccapo?
Avrei intrapreso la carriera diplomatica, visti i miei studi di Scienze Politiche e all'Ispi.

Lei ha cominciato questo percorso per caso o per scelta?
Per caso. Non avevo ancora finito l’università. Camminavo nei pressi dell'Esselunga di viale Monte Rosa, quando vidi un cartello sulla portineria della Voce del Padrone, la famosa casa discografica con etichette quali Columbia, Marconifone, Capitol Records. Feci domanda e fui assunto come impiegato nell'ufficio artisti, grazie all'inglese fluente, imparato in Usa.
Bellissimo periodo: ho incontrato artisti come Nat King Cole, Edith Piaf, Benedetti Michelangeli, la Callas, Nicola Arigliano, Paul Anka.
Sono anche stato corrispondente per 6 mesi di Billboard per l’Italia: ho lasciato per motivi familiari e ho passato il compito a un amico d’infanzia, Roberto Galanti, che è poi diventato uno dei più importanti produttori discografici italiani (fra gli artisti da lui prodotti o scoperti ricordo Ivano Fossati, Pfm, Eros Ramazzotti).
A causa di una malattia di mio padre abbandonai La Voce del Padrone, per occuparmi dell’attività di famiglia: mio padre aveva una società di import export con la Germania, società che ho poi ceduto a un amico. Parallelamente un altro amico, Roberto Alazraki (che è poi stato il fondatore del primo fondo pensione privato italiano, il Fonschim), aveva conosciuto Bernard Cornfeld, fondatore di IOS nata per vendere quote di fondi di investimento ai soldati americani di stanza in Europa, ma si rese conto che i veri clienti erano gli europei: Roberto, che aveva rapporti con il mondo finanziario, mise in piedi IOS per l’Italia e mi coinvolse come venditore, attività in cui ebbi un certo successo. Cornfeld ebbe poi la pessima idea di quotare Ios a Zurigo, la società fallì. E la rete di vendita, con tutta la clientela, fu rilevata dall’IMI e divenne Fideuram.

Come arrivò in Standa?
Un pizzico di fortuna aiuta sempre. Nel 1970 mi telefonò il direttore del personale di Standa, che era un amico, ma era diventato anche un mio cliente e mi disse: tu sei riuscito a vendermi dei fondi, convincendomi che era un’occasione da non perdere, adesso noi avremmo bisogno di uno che spieghi ai sindaci che nel futuro delle loro città c’è un grande magazzino Standa. Così entrai in quella che era allora la più grande società di distribuzione in Italia e mi occupai all’inizio solo di autorizzazioni commerciali: nel 1970 non esisteva nemmeno la 426, c’era ancora la cosiddetta “legge prefettizia”, che si applicava ai negozi con più di 400 mq, ma non poneva limiti di superfici. E le contestazioni le risolveva il Ministero dell'Industria e del Commercio. Nel 1971 venne istituito un tavolo al Ministero dell’Industria e del Commercio nel quale si discuteva il regolamento di esecuzione della nuova legge, la 426: io vi partecipai come rappresentante di Standa.
In Standa incontrai un altro personaggio che ebbe grande influenza su di me, Vasco Veraldi, responsabile di tutto l’immobiliare in Montedison, di cui divenne poi uno dei due vicepresidenti (l’altro, assai più noto, era Giuseppe Garofano). Da Veraldi ho imparato il 70% di quello che so del mestiere immobiliare. Lui mi chiese di occuparmi anche della ricerca di nuove posizioni e di autorizzazioni urbanistiche. Da allora e fino al 2001 ho sempre lavorato nello sviluppo della grande distribuzione e quindi nel settore dei centri commerciali.

Altri maestri?
Per i centri commerciali Carlo Orlandini, che è partito dall'industria (era responsabile di Ibm in Francia) per approdare alla grande distribuzione in Standa. E poi ricordo con affetto Vincenzo Romagnoli che mi assunse per creare un network di centri commerciali urbani al posto di un circuito di sale cinematografiche che aveva rilevato a Roma, nel 1985-86 (Romagnoli è tra l'altro il promotore di Granai di Nerva). Romagnoli mi parlò di un progetto messo in piedi con Calisto Tanzi (uomo molto discusso, che tuttavia con me si è comportato con grande integrità), alla cui guida aveva chiamato Marcello di Tondo, un amico dei tempi di Montedison, per creare un circuito televisivo nazionale: io dovevo essere amministratore delegato delle antenne locali, di proprietà o affiliate. Mi venne proposta una retribuzione così elevata da superare ogni resistenza, ma più che altro fu la mia consueta curiosità a farmi accettare e così entrai in Odeon Tv che ebbe clamorosi risultati all’inizio, ma poi finì male, stritolata tra Mediaset e Rai; e l’avventura Odeon per me si chiuse nel 1988.

Dunque, ricapitoliamo:
Standa, Montedison (come responsabile delle aree dismesse, e mi sono occupato del condono edilizio), poi rientro in Standa come direttore patrimonio e sviluppo. Dopo Standa, collaboro con Romagnoli e fondo Odeon tv. Poi Romagnoli mi propone di entrare come amministratore delegato in Salvarani, che aveva appena rilevato da Gepi, dove ho passato 8 mesi folli, ristrutturando la rete di vendita, ma l'industria non era nelle mie corde, anche se ho imparato tantissime cose nuove.
Quindi rientro nella grande distribuzione come responsabile patrimonio in Coin (1989-1991) e poi Rinascente con Giuseppe Tramontana (mancato nel 1994, ex ad Rinascente, ndr) prima, e Giovanni Cobolli Gigli dal 1991 al 1997. Da lì passo in Gs-Euromercato (poi Gs-Carrefour Italia), fino a novembre 2000, quando inizio l'esperienza con Sonae Sierra.

Il resto è storia recente. Con Sierra abbiamo sviluppato in Italia tre centri commerciali totalmente nuovi (Freccia Rossa a Brescia, Gli Orsi a Biella e Le Terrazze a La Spezia) e ne abbiamo acquistati altri due, l’Airone a Monselice e Valecenter a Marcon (Venezia), che abbiamo profondamente ristrutturato e rilanciato.
Questi ultimi quattordici anni sono stati straordinari. Credo che nessuna esperienza sia così stimolante (e così faticosa) come lo start-up di una nuova attività, la creazione di un team di lavoro, l’assunzione di una responsabilità totalizzante, non solo per te stesso e per l’azienda, ma anche per le persone che vi lavorano, persone di cui sono diventato non solo collega, ma anche amico, anche se quasi tutte potrebbero essere – anagraficamente – miei figli e in alcuni casi persino nipoti!

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