Nel sistema deformato prospera lo store brand

Cresce la consapevolezza di essere nel pieno di una depressione economica. Ciò spinge (come è sempre accaduto) le famiglie e le imprese verso strategie volte ad allentare una tensione ambientale divenuta insopportabile.

In breve, il sistema degli acquisti e dei consumi si deforma. Privilegia o sacrifica le tante alternative disponibili. Per cogliere le tendenze in atto l’artifizio migliore consiste allora nell’osservare la derivata prima (la velocità) e la derivata seconda (l’accelerazione) dei trend in atto; ovviamente se i dati lo consentono. Se derivata prima e seconda (per quanto piccola) sono entrambe positive, allora la tendenza genera, prima o poi, rotture di equilibrio nell’arena competitiva.

Marca commerciale
Le private label continuano a crescere. Quelle dei retailer più bravi, accelerano. Il dato comunicato ufficialmente è distorto e depotenziato, ma analizzato con il criterio che ho espresso chiaramente su Mark-Up nn. 181 e 184, cioè: calcolando la quota di mercato a volume, per insegna, su referenze confrontabili e nei negozi trattanti, cancella ogni dubbio. In molti casi, le PL detengono la leadership nei segmenti più maturi e più grandi. Non solo. Spesso stanno abradendo il goodwill delle marche cash cow e leader di mercato. Il ragionamento economico – diceva Frédéric Bastiat – si basa su “ce qu’on voit et ce qu’on ne voit pas”. Guardiamo, allora, alcuni effetti piccoli e nascosti. Vessate e immalinconite dal prelievo fiscale le famiglie sono più incuriosite dalle PL e, in particolare, da quelle al top di gamma (che offrono maggior risparmio e un’ottima qualità). L’applicazione dell’articolo 62 spinge i retailer ad accrescere l’autonomia dai grandi fornitori, grazie al controllo totale della filiera. Il differenziale di profitto rispetto ai concorrenti più bravi nel gestire il prodotto a marchio è un’altra spinta imitativa nella medesima direzione.

Potenzialità inespresse?
Perché, dunque, i retailer non adottano una diversa misurazione del potenziale delle proprie marche? La risposta è: essa metterebbe in luce un grande interrogativo della loro futura strategia commerciale. Dimostrerebbe che, i migliori, potrebbero adottare lo stile di M&S, ma anche di Sainsbury’s e Tesco nel Regno Unito e di Trader Joe’s, Wholefoods e Target negli Stati Uniti, e di Casino e Picard in Francia: contrarre lo spazio dei brand o espellerli per privilegiare i propri. La derivata prima e seconda delle quote di PL calcolata correttamente, proietta infatti, a scadenza non troppo lontana, una drammatica turbolenza nei rapporti tra distribuzione e industrie fornitrici leader dei segmenti dove la tecnologia non è più esclusiva.

La storia insegna
Il regresso della “marca” leader e non solo dei marchi minori non è però una bestemmia. La storia del marketing dimostra che l’invenzione del brand è un fenomeno tipico del XX secolo, indotto dalla massificazione del consumo di prodotti seriali. Gli USA, il laboratorio del retail di domani, evidenziano il trend opposto ed estremo della vendita bulk (sfusa). La dinamicissima catena californiana Sprouts propone 400 item bulk. Quasi tutti gli indipendenti spingono il caffé fresco di torrefazione in decine di varietà sfuso. Ad Austin ha aperto l’arditissimo in.gredient, il primo (piccolo!) store di “no-packaged goods”: un “batterio” insignificate come lo era, nel 1978, Whole Foods, nato nella medesima città, ma già con una notorietà nazionale

In Italia?
Ovviamente l’evenienza, in Italia, non è di domani, ma l’idea che, in certi settori, l’industria torni a fare l’industria concentrando la produzione, e che il retailer si occupi della relazione (non più mediata da un flusso stordente
di pubblicità) con il consumatore/cliente, non è così anacronistica. Me lo hanno detto in un orecchio fornitori che, al di là della posizione di facciata, non ci pensano proprio a rinunciare a produrre per sé e (in misura crescente) per i distributori loro committenti.

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