Occorre coinvolgere di più le piccole imprese del food

È il punto critico individuato da Luigi Scordamaglia, consigliere delegato di Filiera Italia: evitare nel 2020 che la forbice con le grandi imprese si allarghi ulteriormente (da Mark Up n. 285)

L’agroalimentare italiano ha bisogno di investire su se stesso per estendere la capacità competitiva anche alle piccole aziende. È questo un punto critico indicato da Luigi Scordamaglia, consigliere delegato di Filiera Italia, su cui bisogna lavorare nel prossimo futuro per evitare che si allarghi la forbice tra poche grandi aziende trainanti che vanno molto bene ed esportano e tante piccole realtà che faticano a stare sul mercato. “I dati sulla salute del settore agroalimentare sono positivi -commenta Scordamaglia- ad agosto registrano una crescita della produzione e dell’export superiore rispettivamente del 2 e del 4% al manifatturiero, ma il 95% delle esportazioni è realizzato da solo il 15% delle aziende”.

Come intervenire per colmare questo divario?

C’è un’enorme massa di liquidità che le banche devono investire e un numero limitato di aziende a cui possono concedere credito per tutte le regole che si sono via via accumulate. Le imprese perciò non solo devono crescere dimensionalmente, ma è necessario che, al contempo, organizzino la propria struttura economica e finanziaria per renderla idonea ad accedere al credito. Un equilibrio finanziario che possono raggiungere attraverso i vari strumenti a disposizione come il private equity, le partecipazioni, ecc. Oggi serve apertura mentale per ottenere apertura di capitale e non ci sono strade alternative: o ci si struttura o si esce dal sistema. Lo sforzo va fatto ovviamente nei due sensi perché gli strumenti finanziari che investono nell’alimentare devono garantire tempi di crescita e sviluppo medio/lunghi non certo atteggiamenti speculativi mordi e fuggi visti in passato. Al riguardo il nuovo ruolo che sta rivestendo Cassa depositi e prestiti è strategico e fondamentale per le pmi del settore

Il consumatore italiano apprezza il modello delle filiere integrate, ma con una grande distribuzione in sofferenza per il calo delle vendite si riesce a garantire a tutti gli attori la redditività di cui questo sistema produttivo si è fatto garante?

Cominciamo a dire che nella filiera non esistono “cattivi a cui dare la colpa che si appropriano di marginalità altrui. Esistono semmai aziende efficienti e non. La grande distribuzione, seppure in parte in sofferenza, anche quando mette al centro il prezzo come elemento competitivo non rinuncia mai a esigere determinati requisiti di qualità, sicurezza e sostenibilità del prodotto. Il rispetto di questi requisiti, in particolare della sostenibilità ambientale, può però essere costruito in maniera formale o sostanziale e, in quest’ultimo caso, solo le aziende con una vera integrazione verticale e una supply chain consolidata possono garantirla. Anche il trade ha convenienza a definire dei contratti pluriennali e stabili di approvvigionamento piuttosto che rischiare in giochi speculativi e andare sul mercato e cercare di accaparrarsi la partita di merce al prezzo più basso. Le insegne che cercano di strozzare le filiere integrate sul prezzo non avranno vita lunga in Italia come sta succedendo a livello globale. Il fattore competitivo principale per le aziende di successo sarà sempre più il consolidamento del sourcing e questo farà sopravvivere tra fornitori e distributori solo chi realizzerà veri rapporti a lungo termine di partnership.

Passiamo agli scenari internazionali. Come deve rispondere l’Europa ai dazi Usa?

Sono misure protezionistiche selettive che vanno a colpire i prodotti maggiormente imitati per creare le condizioni per favorire il fake locale. L’Unione europea deve trovare un compromesso con Trump e aprire un fondo compensativo verso le filiere: basterebbe un millesimo della generosità con cui ha consentito gli aiuti illegali ad Airbus.

Filiera Italia ha assunto una posizione molto critica verso il Ceta, per quali motivi?

Analizzando i dati dei primi 8 mesi dell’anno emerge che le vendite dell’agrifood italiano verso il Canada sono aumentate di quasi un quinto dell’incremento dell’esportazione media agroalimentare verso il resto del mondo; questa è la conferma numerica che c’è qualche cosa che non va nei termini dell’accordo.

Quindi prima di ratificarlo bisogna correggerne alcune parti, per esempio il fatto che le licenze d’importazione siano affidate a produttori locali che hanno tutto l’interesse a impedire l’ingresso di prodotti concorrenti o ancora garantire una maggiore tutela per le denominazioni. Detto questo c’è un problema di fondo: siamo sicuri che aver ceduto sui nomi generici ci dia un vantaggio nel lungo termine? Vero è che non avremmo potuto esportare il prosciutto di Parma, abbiamo evitato che l’evocazione di Parmesan negli Usa fosse associata all’italianità, ma così abbiamo creato un precedente dando ai produttori di italian sounding la possibilità di farlo legittimamente a livello globale.

Come giudica l’accordo raggiunto sulla Brexit?

È positivo aver evitato i dazi e avere un po’ di tempo davanti di libero scambio, ma servirebbe qualche garanzia in più sui controlli delle merci in ingresso dai porti inglesi.

Quali dovrebbero essere i punti portanti della nuova Pac?

Le politiche di filiera devono essere centrali. I fondi vanno dati per rendere le varie fasi produttive competitive, non per tenere bene un terreno o non farlo produrre, come è stato fatto in passato. Detto questo, non si fa un servizio al mercato unico se, come sembra, si nazionalizzano completamente le scelte. Allo stesso tempo si dovrebbe prendere atto che la vera diversità tra gli stati membri di cui tenere conto è quella del valore aggiunto che producono e dei costi differenziati che sostengono: non possono essere messi sullo stesso piano un ettaro di terreno nella Pianura Padana e la stessa superficie di terra in uno stato dell’Est Europa, dove terra e manodopera costano infinitamente meno.

Bisogna quindi partire da una base comune, ma poi da paese a paese si declini l’utilizzo delle risorse sulla base del costo e valore aggiunto di ciò che si produce, altrimenti si alimentano i conflitti interni all’Unione e l’Europa finisce per assumere quel ruolo di matrigna tanto criticato oggi.

LASCIA UN COMMENTO

Inserisci il tuo commento
Inserisci il tuo nome