Assobioplastiche: compostabili per la prima volta in calo

La concorrenza scorretta della plastica cosiddetta “riutilizzabile” aggira le norme Ue sulla sostenibilità e mette a rischio un comparto da 5,3 miliardi

Un percorso di conversione difficile per le imprese associate a Assobioplastiche, impegnate nelle produzioni di articoli monouso per la gastronomia, il catering e la ristorazione. La recente direttiva Ue denominata Sup le ha obbligate passare dai prodotti di plastica tradizionale a quelli in bioplastica compostabile. La conversione produttiva è costata investimenti in ricerca, sviluppo e innovazione, oltre che l’acquisizione di nuovi materiali, nuove attrezzature e nuovi processi. L’obiettivo era, nel rispetto delle leggi europee e italiane, portare nelle case un prodotto biodegradabile funzionale alla raccolta nei rifiuti dell’organico. Non tutte le aziende hanno retto agli investimenti richiesti,  alcune hanno chiuso i battenti. Paradossalmente, queste aziende che hanno faticosamente affrontato la riconversione, oggi si trovano di fronte a una concorrenza scorretta di altre aziende, spesso extraeuropee, che  producono articoli in plastica scrivendo sulla confezione “riutilizzabili” così da poter aggirare le attuali normative.

Questo tema è stato centrale nel convegno di Assobioplastichetenutosi a Roma  

Luca Bianconi, presidente di Assobioplastiche, ha subito ricordato che la quota di mercato sottratta a chi opera con correttezza nel comparto delle bioplastiche cresce sempre di più e il mercato delle monouso compostabili è quindi, per la prima volta dopo oltre 10 anni, in calo del 20%. Una decrescita che coinvolge tutte le aziende dell’associazione composta da 54 imprese per 270 operatori e oltre tremila addetti, con e un volume di affari di 1,165 miliardi di euro, in crescita del 218% nel decennio 2012-2022.  Considerando anche  i trasformatori delle bioplastiche il volume d’affari complessivo del comparto arriva a 5,3 miliardi di euro con 13 mila occupati, ma la preoccupazione dal 2023 è costante. Bianconi osserva che la tecnologia chimica alla base delle bioplastiche compostabili è tutta italiana ed è frutto di ingenti investimenti in ricerca che hanno portato il nostro Paese a livelli di eccellenza del mondo. Tuttavia la crescita di questa produzione è strettamente connessa alla diffusione del riciclo organico che ha le sue manchevolezze per un mancato aggiornamento culturale. Siamo quindi di fronte a un problema normativo, di illeciti, ma anche di informazione presso gli utenti che devono riciclare. La denuncia sulla concorrenza scorretta al monouso rispetto al “riutilizzabile” è anche oggetto di una mozione di alcuni associati di Assobioplastiche (Bibo Italia, CPB, Ecozema, Emar Plast, ILIP, IMI) che si mettono a disposizione dei decisori politici per un tavolo tecnico in cui si definiscano i parametri “il più possibile oggettivi, inequivocabili e di immediato riscontro da parte dei cittadini-consumatori e di che deve controllare il rispetto della legge e le caratteristiche di un manufatto in plastica realmente riutilizzabile che non dovrebbe essere percepito come un monouso e quindi smaltito dopo il primo utilizzo”. Secondo Francesco De Leonardis, dell’Università degli studi Roma Tre, il contesto normativo della direttiva europea purtroppo sia per le plastiche rigide che per quelle flessibili non dàindicazioni sul riutilizzabile” e questa mancanza di definizione rischia di vanificare tutto l’impegno profuso nella intera normativa.

Plastica "riutilizzabile" per davvero?

Nel contempo molti di questi oggetti di plastica definita “riutilizzabile”, possono in realtà contaminare gli elementi di cibo che contengono, come ha spiegato Patrizia Fava, dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, e molte di queste contaminazioni sono silenti. In realtà il riutilizzabile dovrebbe essere un materiale che rimane integro anche dopo contatti ripetuti. Invece, durante il convegno di Assobioplastiche si mostrano studi in cui melanina e formaldeide possono trovarsi persino in oggetti di bambù che di solito sono mescolati a resine che li possono rendere persino cancerogeni. Appare chiara, dunque, la necessità di passare da un modello lineare a uno circolare. Come fa notare Paola Fabbri, dell’Università Alma Mater di Bologna, il concetto stesso di “plastic free” è di impossibile realizzazione, e si rischia, per l’ambizione di realizzarlo, di creare danni ben peggiori di quelli dell’uso stesso della plastica. “L’utilizzo di materiali plastici è applicato ovunque, noi dobbiamo lavorare su ricerca e innovazione sostenibile non sul plastic free” afferma la docente. “Il fatto di utilizzare materiali provenienti da fonti rinnovabili non significa connotarsi come sostenibili: non è sufficiente, abbiamo bisogno della piena riciclabilità. Dobbiamo essere così consapevoli che il tipo di certificazioni e controlli delle bioplastiche sono di gran lunga superiori ai controlli di altri materiali.

Riciclo e riuso, le abitudini degli italiani sotto la lente

A questo proposito Nicolò Beati ha presentato i risultati un'indagine NielsenIQ sulle abitudini di consumo  degli italiani dei prodotti monouso dalla quale emerge che la convenienza resta il principale criterio per la scelta di questi prodotti (41%) ma sono quasi allo stesso livello coloro che scelgono questo tipo di stoviglie per la sostenibilità (37%). Nell’indagine si convalida l’ipotesi di Assobioplastiche: solo il 14% delle stoviglie riutilizzabili viene lavato ed effettivamente riusato;  percentuale leggermente superiore nel caso di articoli in plastica (16%) e bioplastica (15%). Inoltre,si riutilizzano più i piatti e le posate (rispettivamente 23% e 17%) rispetto ai bicchieri (9%). Il 59% delle persone, infine, usa prodotti a scopi diversi secondo le necessità e molti sono coloro che li usano anche nel quotidiano per risparmiare sul ciclo della lavastoviglie. Da un'altra analisi presentata da Maurizio Fieschi (LCA Life Cycle assessment) viene dimostrato che al di sotto dei 40 utilizzi di un oggetto di plastica, è di gran lunga preferibile il monouso ai fini della sostenibilità ambientale. Quindi si può ipotizzare che quel 14% di italiani che riusa le stoviglie di bioplastica difficilmente superi i 40 lavaggi di queste. Da qui si comprende la cultura del riuso e del riciclo sia davvero inesistente al di fuori degli addetti ai lavori, e come ci sia bisogno di far conoscere al consumatore le difficoltà insite nell’uso scorretto delle bioplastiche e delle plastiche che apporta danni non solo all’economia, ma anche alla salute delle persone. Basti pensare alle stoviglie di plastica per i bambini piccoli, spesso di materiali che non subiscono nessun controllo rispetto a un qualsiasi prodotto in bioplastica, che potrebbero rilasciare microparticelle dannose dopo lavaggi ripetuti o a contatto con il calore. Infine questa mancanza di conoscenza dei prodotti protrae i suoi danni nelle pattumiere, come ha fatto notare Massimo Centemero del Consorzio Italiano Compostatori. “Nella raccolta differenziata l’80% dei rifiuti dell’umido sono organici, il 3,2% sono materiali compostabili, ma l’8,1% è costituito da materiali non desiderati, primo tra tutti la busta stessa dei rifiuti: il 36,8 dei sacchetti dell’organico è di plastica”. Invece, il materiale non organico dovrebbe essere idealmente al 2% per risparmiare sui costi di produzione e avere una quantità maggiore di compost utile alla terra e per l’energia. Non solo, i sacchetti di plastica che dovevano essere banditi, sono sempre più un aumento e quindi sempre più usati “peggiorando la qualità di tutto l’umido”. In definitiva quindi l’Italia pur essendo un’eccellenza nel riciclo ha bisogno di migliorare la differenziata, partita bene, ma con un calo costante nella qualità.

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