Great reshuffle: serve una nuova ricerca della felicità sul lavoro

Italiani sempre più insoddisfatti e stressati dal proprio lavoro e alla ricerca di aziende più attente a felicità, benessere e valori. I dati da Serenis e Osservatorio BenEssere.

Quando si iniziò a parlare di great resignation, il fenomeno delle dimissioni di massa partito negli Stati Uniti e velocemente arrivato anche in Europa, l’associazione immediata fu quella del reshaping valoriale: una grande messa in discussione del proprio stare al mondo declinato in più contesti, dalle scelte di vita quotidiane a, ovviamente, il lavoro. Il tema della felicità sul luogo di lavoro, associato al work life balance, da argomento di nicchia è rivelato mainstream, diffondendosi anche in realtà che in un primo momento avevano guardato con poca convinzione alla possibilità di prendersi cura in modo strategico del benessere dei dipendenti. Eppure, la strada è ancora parecchio lunga, soprattutto perché più che di great resignation, come abbiamo già rimarcato in un precedente articolo, oggi ha più senso parlare di great reshuffle: le persone lasciano il lavoro animate da una concreta necessità valoriale e dal bisogno di sentirsi bene anche andando oltre il solo fattore economico.

Lavoro e felicità

La domanda focale è la stessa che ci si faceva ben prima di parlare di grandi dimissioni e che oggi assume una connotazione di urgenza: quanto le persone sono felici del lavoro che svolgono? Poco, in realtà. A far emergere il dato sono due importanti ricerche, recentemente pubblicate, che hanno indagato lo stato di salute della felicità e del benessere dei lavoratori (quarta release dell’Osservatorio BenEssere Felicità) e il benessere mentale dei lavoratori italiani (ricerca Serenis in collaborazione con il Dipartimento di Scienze Economiche e Aziendali dell’Università di Padova.
Ad alimentare una spirale di infelicità diffusa soprattutto nel Nord Ovest Italia e tra Generazione Z e operai è, secondo l’Associazione Ricerca Felicità che annualmente condivide i dati del suo osservatorio BenEssere, uno scollamento nel percepito dei lavoratorio: non si riceve tanto quanto si dà all’azienda. Il 76% vede il proprio lavoro utile per il miglioramento dell’azienda, ma per il 41% quanto si svolge non dà né un senso alla propria vita e né, tantomeno, aiuta a capire sé stessi e i propri obiettivi intrinseci.
È, per gli italiani, un momento di maggiore consapevolezza rispetto al ruolo della felicità e all’impatto dell’incarico professionale che contribuisce per più della metà del campione coinvolto in maniera significativa, ma solo il 10% si sente davvero felice del proprio lavoro.
L’evoluzione del rapporto persona-lavoro è in un momento cruciale, in cui è importante ascoltare e definire le strategie più rispondenti alle necessità del proprio personale. Il tema è anche al centro della quarta edizione della Settimana del Lavoro, in programma a Torino dal 18 al 23 marzo 2024. L’evento sta ponendo al centro del dibattito tra docenti, ricercatori, professioni, parti sociali, rappresentaze politiche, sindacali e datoriali tre parole chiave: equità, benessere e sviluppo. È proprio in questo contesto che, in occasione della giornata internazionale della felicità, il 20 marzo scorso, sono stati presentati i dati del Barometro della Felicità, raccolti su un campione di oltre mille lavoratori autonomi e dipendenti di tutte le generazioni attualmente impegnate professionalmente. Il 45% degli intervistati vorrebbe avere la possibilità di cambiare realtà o mestiere nei prossimi 12 mesi, con un "ma" da non sottovalutare: la notorietà dell’azienda genera appeal solo per il 3%. Per quanto la R.a.l. rimanga al primo posto, il suo primato viene compensato da un’attenzione maggiore alle possibilità di crescita (30%), al contenuto del lavoro, all’autonomia, all’attenzione alla salute mentale, al work life balance (23%) e al modo in cui ci si relaziona, si viene apprezzati e si condividono i valori con la comunità di lavoro (20%).

High stress

Sorprende che i più alti livelli di stress siano stati riscontrati da Serenis sia per chi lavora nel comparto tech (la spiegazione è dettata dalle continue trasformazioni del mercato) e nelle aziende di medie dimensioni, ma in modo ben evidente tra le donne e gli uomini occupati nelle aree di marketing e comunicazione, dove il livello di disagio è superiore a qualunque altra area aziendale. Eppure, per quanto il tema del benessere sul lavoro sia ritenuto importante da quasi due persone su due (Indagine Serenis), manca una vera attenzione da parte delle aziende. Un’informazione che stona rispetto a una richiesta ben chiara da parte dei lavoratori che individuano nei programmi per il benessere mentale una delle migliori azioni per gestire e mitigare lo stress (86,7%), seguiti da campagne di ascolto dei consigli dei collaboratori (48,3%), programmi di mentoring (45,9%) e controlli sanitari e campagne di prevenzione (36,8%). A fronte di una persona su due con punteggi che indicano chiaramente disagi psicologici di difficoltà crescente, il mondo del lavoro si sta muovendo ancora con lentezza, nonostante sia chiaro che la salute mentale non sia rilevante solo per la vita privata, ma influenzi performance lavorativa e, anche, attrattività dell’azienda.

Quali soluzioni

Un elemento positivo che emerge da entrambe le ricerche è il crescente superamento del tabù della salute mentale: il 72% dei lavoratori italiani ha già affrontato in modo autonomo un percorso di counseling o supporto psicologico e se non l’ha fatto è stato prevalentemente per motivi economici, mancanza di tempo o di riferimenti fidati. La presenza di sportelli psicologici, di attività di ascolto costante e di attenzione sono alcuni dei primi elementi di riflessione. Ma non basta. C’è più di una questione di mindset da superare: la prima riguarda il discusso tema del lavoro da remoto che non necessariamente contribuisce a una riduzione dello stress, come rimarca Serenis, ma si tratta di una questione di autonomia e di come viene gestita da ambo le parti. Stesso discorso vale per il carico orario e il lavoro durante il week end che va a peggiorare stati di ansia già presenti. Determinante è poi la dimensione sociale: lavorare da soli peggiora il disagio, così come non percepire una comune relazione valoriale con colleghi e dirigenti. Va da sé quanto non esista una strategia one size fit all quanto una politica di ascolto delle necessità professionali e personali con una conseguente risposta aziendale che "time will confirm", dovrà essere sempre più personalizzata.

 

Dati da Osservatorio BenEssere
Dati da Osservatorio BenEssere

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