Neosperience: empatia e big data

Incontriamo Dario Melpignano, visionario tecnologico che ha creato la digital customer experience empatica alias Neosperience (da Mark Up n. 287)

Empatia e tecnologia un binomio vincente, eppure in un mondo sempre più a compartimenti stagni nessuno aveva mai pensato di unirle, così quando ho conosciuto Dario Melpignano, mi è venuta la curiosità di approfondire e ho scoperto che non solo è possibile, ma che Neosperience, la società creata da Dario, che da startup in pochi anni è diventata un’azienda quotata, lo sta già facendo. Ma partiamo dall’inizio ...

Come hai cominciato?

Si può dire che mi sia occupato di questo per tutta la vita, da quando andavo alle elementari, era l’inizio di quella che sarebbe stata la rivoluzione della Information Technology, programmavo da Marcucci a Milano (negozio storico di elettronica di consumo, chiuso da tempo, ndr). Mio padre, che da questo punto di vista è stato un esempio e un modello, è stato tra i primi in Italia a occuparsi di sviluppo di software applicativo. Fu lui a trasmettermi questo entusiasmo per la tecnologia. In prima media, costruii il primo computer, montando un kit, e cominciai a programmare, andavo a scuola e, invece di seguire le lezioni, sui fogli a quadretti scrivevo programmi. Tutto cominciò così.

Neosperience è tecnologia ma con una forte carica umanistica: da dove arriva?

Nel tempo ho capito che il limite della cultura occidentale consiste nella frammentazione del sapere, che impedisce una lettura trasversale dei fenomeni. In particolare, nel mondo della tecnologia, manca una prospettiva autenticamente umanistica. Le competenze di chi opera, per esempio, nel settore dell’intelligenza artificiale e del machine learning, tendono a essere polarizzate sulla dimensione quantitativa e a mancare di una dimensione umana e psicologica. Io credo sia importante che le persone abbiamo un utilizzo consapevole ed efficace della tecnologia, cosa che può avvenire soltanto ricomprendendo, in una rilettura della tecnologia, la componente umana e l’empatia.

L’empatia è stata una scoperta recente, degli ultimi anni: mi sono reso progressivamente conto che questa diffusione dello smartphone e la modifica sostanziale dei processi di relazione tra noi umani ha prodotto un allontanamento, una minore capacità di cogliere le dimensioni che hanno caratterizzato il comunicare degli umani negli ultimi ventimila anni. Questa trasformazione, che è stata assecondata dalla plasticità del nostro cervello, sta producendo, dagli anni 70, una progressiva incapacità di mettersi nei panni degli altri, di considerare il mondo da una prospettiva diversa dalla propria. Mi sembra che la tecnologia abbia contribuito a polarizzare in questa direzione e che sia tempo di dare una raddrizzata, dare un piccolo contributo per rendere le persone più consapevoli, utilizzare la tecnologia per il bene. Mi sembra una partita che valga la pena giocare.

Quando nasce Neosperience?

Nel 2006 con un progetto di ricerca e sviluppo che poi ha condotto allo sviluppo di WebKit, la prima piattaforma di app per lo smartphone, prima di allora si chiamavano cellulari, il partner principale fu Nokia che contribuì al progetto e che aiutammo a portare sulla piattaforma Apple, prima del lancio dell’iPhone 3G in Europa. L’occasione fu proprio quella di sviluppare le prime app, quindi aiutare Apple a lanciare questo prodotto straordinario, che ha segnato il cambiamento di un’epoca. Progressivamente realizzammo una tecnologia che aiutò sempre più le aziende ad acquisire nuovi clienti e ad aumentare il valore dei clienti esistenti. In questa direttrice si innestò tre anni fa il filone della psicologia cognitiva comportamentale e sociale. Nacque in Neosperience un team, che mise a sistema delle conoscenze approfondite di AI e machine learning, quindi con una matrice culturale e di esperienza professionale più quantitativa e analitica con psicologhe del marketing. Cui si è più recentemente innestato un filone di neuromarketing. Sono tutte prospettive diverse della stessa cosa. Abbiamo creato una piattaforma tecnologica che permette di comprendere i tratti della personalità, le motivazioni profonde per cui le persone acquistano prodotti e servizi, e in questo senso aiutiamo le aziende a essere più efficaci nel comprendere il perché dei fenomeni, e non limitarci a osservare le correlazioni con l’Intelligenza artificiale, come avviene oggi soprattutto nel mondo retail. Perché poi negli ultimi anni con l’avvento di tecnologie sempre più potenti per l’analisi di grandi volumi di dati è diventato sempre più facile individuare le correlazioni nei comportamenti, nei tratti socio demografici. Tutto interessante ma a volte fa perdere di vista il focus, cioè si tende a confondere la correlazione con la causalità: individuare correlazioni fra i comportamenti d’acquisto non significa aver indagato le cause profonde. Le correlazioni, utilissime per comprendere quello che è stato, non ci dicono nulla su quello che sarà, che è ciò che serve in un mondo che cambia in maniera così rapida. Pur continuando ad analizzare i dati e il passato, è necessario indagare il presente e il futuro con degli strumenti più qualitativi. Combinare l’approccio di analisi dei grandi volumi di dati con la ricerca qualitativa.

Cosa cambierà la AI per i retailer?

La tecnologia è utile quando scompare, quando esce dal cono di attenzione delle persone. In questo senso l’intelligenza artificiale può dare un contributo straordinario se riesce a fare in modo che le persone passino meno tempo davanti a un piccolo schermo, quello del loro smartphone, e se riescono prima e più facilmente, magari anche risparmiando, a ottenere quello che vogliono. Magari a scoprire quello che vogliono, ancor prima di comprenderlo in maniera esplicita e di verbalizzarlo. Gli spazi di opportunità sono davvero tanti: ci sono una serie di iniziative che integrano le componenti di visione artificiale usate nell’automotive, quindi intersecare quello che si fa per le auto a guida autonoma con quello che si fa nel mondo retail dà l’opportunità di creare dei negozi in cui vivo l’esperienza di toccare il prodotto e trovarmelo a casa. C’è la possibilità di stabilire una relazione più profonda, diretta, più empatica con i clienti: l’eCommerce ha tante doti ma manca di quella capacità di relazionarsi che era tipica del piccolo punto di vendita. La tecnologia realmente innovativa fa la differenza quando indirizza una tripletta di bisogni, che potremmo riassumere in be helpful, be human e be handy. Sono le tre cose che realmente servono e interessano, tutto il resto è sovrastruttura. Quindi avere una tecnologia sufficientemente sofisticata da scomparire è la direzione verso cui i retaler possono e devono tendere.

In che modo?

Da una parte quindi, il retailer o il brand devono stabilire una relazione diretta e continuativa con i clienti, per riuscire a creare una unbreakable community. Credo però che per far questo si debba superare la logica dualistica aristotelico-cartesiana: bisogna vendere in tutti i modi, mentre è necessario creare delle customer community robuste, su cui poi introdurre modelli di subscription, che possono generare ricavi ricorrenti e previsioni di marginalità stabili.

Quanto piacerà la subscription agli italiani?

Mi piacerebbe scoprirlo, credo che la convenience in tutte le sue accezioni, legata al modello di subscription sia davvero una chiave di volta e una grande opportunità. Credo che sia urgente introdurre questi processi, testare, misurare e verificare, ma con un’apertura mentale che ci faccia andare oltre la cronica arretratezza dei processi enterprise e business del nostro Paese. Perché se è vero che da una parte l’Italia è arretrata, ed è una cultura gerontocratica, poco disponibile ad accogliere l’innovazione, dall’altra è anche vero che i clienti sono gli stessi, con le stesse attese che possiamo trovare a San Francisco o Shenzhen, quindi sono i retailer, i brand, che devono cogliere un’esigenza che è globale.

Oggi le persone hanno un livello di attesa sulla qualità del servizio che è dettato da Amazon, che ha settato l’asticella sulla logistica e sul customer service, e su questo i retailer devono mettersi in pari ma, dall’altro lato, possono puntare sugli elementi differenzianti su cui Amazon ha maggior difficoltà, sulla relazione diretta, empatica, continuativa, sul negozio fisico. Immagino un domani fatto di showroom dove non si entra per guardare un prodotto e poi comprarlo su Amazon, ma per guardarlo, provarlo, vivere un’esperienza che poi rimane radicata nella mente e nel cuore del cliente, che poi si traduce in un delivery a casa a condizioni economiche vantaggiose. Quello che si risparmia sullo stoccaggio e sul magazzino si può restituire come valore, magari riducendo il prezzo, guadagnando in competitività rispetto ad Amazon. Il valore si sposta sulla relazione con il cliente, continuando a soddisfare le sue esigenze e magari anche anticiparle e la subscrition diventa uno strumento formidabile.

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